venerdì 15 gennaio 2016

Delitti in provincia (I)

Delitti in provincia
(Varese)

Lidia Macchi fu massacrata di coltellate,
30 anni per arrestare un credibile colpevole


"La provincia cova sonnolenta le sue malefatte", scrisse tanti anni fa Mario Soldati. Più che seguo i delitti di provincia e più sono convinto che avesse ragione. Io, nei miei gialli, mi sono ispirato alla metafora della gora o del laghetto. La provincia è liquida: ci tiri un sasso s'alzane onde, le rane si zittiscono, poi le onde si ammortizzano sulle rive erbose e tutto tace. Ma a distanza di anni, nonostante tutto, la provincia continua a sorprendermi.
Ho appreso stamani, con stupore pari alla meraviglia, la notizia dell'arresto di un compagno di scuola della ragazza uccisa quasi tranta anni fa in un bosco nei pressi dell'ospedale dov'era andata a trovare un'amica ferita in un incidente stradale.
Sembra (le notizie sono ancora confuse) che il sospettato sia stato individuato grazie a una lettera anonima che lui aveva mandato allora, confrontata con una cartolina postata di recente. E' proprio vero che "Il postino suona sempre due volte!". Riporto la foto della prima, che inviò ai familiari il giorno del funerale di Lidia. Vi averto su questo manoscritti si fionderanno sedicenti psico grafologi e criminologi di dubbia fama, ma che ostentano odiosa sicumera!


Alcune cose mi turbano.
1. La sadica vessazione di un sacerdote che al momento del delitto fu trattenuto in interrogatori interminabili. Lo sputtanarono e nononostante il rilascio "immacolato" fu costretto a andare altrove. 
2. L'incriminazione del già pluriomicida (delitto delle mani tagliate) che, bastava ben indagare, non c'entrava un tubo (metafora impropria perché non era idraulico, ma imbianchino).
3. Che il presunto omicida, ora arrestato, non sia mai stato considerato dagli inquirenti.
4. Che si sia fatto grande spreco di soldi per analizzare tracce organiche (anche del dna) e liquidi seminali degli abitanti del luogo.
5. Perchè non si è indagato sui compagni di scuola. Una lettera scritta a mano è facile da raffrontare con compiti in classe, sono conservati in archivio per cinque anni e  a volte le professoresse ( a distanza di così poco tempo) possono ancora avere dei pacchi di compiti "prove d'esame" in casa. 
6. Perché la lettera anomima non fu, allora, resa pubblica?
"La donna riconosce la grafia del suo amico Stefano Binda e consegna alcune cartoline che lui le aveva spedito negli anni ‘80. Una perizia accerta che a scrivere poesia e cartoline è stata la stessa mano. Il pm Manfredda rilegge i vecchi atti e nota che dopo la morte della giovane Binda era stato interrogato con altri amici che come lui e Lidia facevano parte dello stesso gruppo legato al movimento cattolico Comunione e liberazione. Il giovane aveva dato un alibi che, però, non era stato verificato: aveva detto di non vedere la compagna di liceo da tre anni e che fino al 6 gennaio ‘87 era in montagna con amici. Convocati dal pm, ora questi lo smentiscono mentre lui, interrogato di nuovo, nega di aver scritto la poesia e di aver visto la ragazza prima della morte. Si delinea un quadro nuovo, anche se non è più possibile fare il test decisivo del Dna perché i reperti biologici prelevati nel 1987 sono stati inspiegabilmente distrutti nel 2000."

Dal TG2: sembra che tutti i reperti siano stati distrutti, non si possono fare raffronti.
"Lui nega"!



16/1 ore 17








"Sono tranquillo, non c'entro nulla, aspetto che tutto si chiarisca". Sono le prime parole dal carcere Miogni di Varese di Stefano Binda, l'ex compagno di liceo di Lidia Macchi, arrestato per l'omicidio della ragazza che all'epoca aveva vent'anni e fu trovata morta il 7 gennaio 1987 in un bosco di Cittiglio (Varese). L'avvocato, Sergio Martelli, ha incontrato l'uomo in carcere e ha riferito le parole del sospettato che manifesta preoccupazione soprattutto per l'anziana madre con cui vive in una villetta ristrutturata a Brebbia, sempre nel Varesotto, che condivide anche con la sorella sposata.

20/1

Non ci sono più reperti organici? ZITTI, n'un lo dite! C'è da interrogare, da stressare i testimoni... silenzio e sospetto... Macché, questi chiacchierano...

21/1

Il papà di Stefano Binda, arrestato con l’accusa di aver stuprato e ucciso Lidia Macchi, morì in casa negli anni Ottanta. Come raccontato dalla madre del 48enne, i carabinieri si presentarono nella villetta di via Cadorna 5 a Brebbia, per chiedere che cosa il marito avesse mangiato a cena la sera precedente. Probabilmente giravano false voci, menzogne nate nel paese di tremila abitanti in provincia di Varese per suggestione e per depistare: i carabinieri aprirono un’indagine che fu archiviata. Ma il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda, che coordina l’inchiesta sulla ragazza scomparsa il 5 gennaio 1987 e rinvenuta cadavere due giorni dopo, potrebbe ugualmente richiedere il fascicolo sulla morte del padre di Binda. L’arrestato è da sei giorni in carcere ed è stato muto nel doppio interrogatorio di martedì. A lui la stessa Manfredda ha rivolto un invito a confessare: «Spero ascolti l’appello accorato della famiglia Macchi e l’anelito di liberazione della sua coscienza». Perché altrimenti il prossimo passo sarebbe un’ulteriore tortura per la mamma, il papà, la sorella e il fratello di Lidia, che apparteneva come Binda a Comunione e liberazione, molto presente in provincia di Varese: la Procura generale di Milano è pronta a disporre la riesumazione del cadavere per cercare, magari sotto le unghie, tracce del Dna dell’assassino che potrebbero essere rimaste anche dopo 29 anni. L’inchiesta, al momento, non ha una prova decisiva. Ci sono però indizi concordanti e convergenti su Binda, e le indagini sono soltanto all’inizio. 


25/1
Ci mancava anche l'escusatio non petita!
Il silenzio dei ragazzi di Comunione e liberazione, gli attacchi della Chiesa, la pista del prete nata per una bugia detta da alcuni sacerdoti. Giorgio Paolillo, 68 anni, è l’ex capo della Squadra mobile di Varese e indagò sul caso Lidia Macchi, uccisa con 29 coltellate a Cittiglio il 5 gennaio del 1987. Oggi è in pensione e spiega perché non emerse allora, come è accaduto dopo 29 anni, una pista chiara sull’assassino di Lidia. «Non c’erano le investigazioni scientifiche di oggi - ricorda l’ex poliziotto -, non si facevano i test del dna, bisognava lavorare alla vecchia maniera e ci trovammo di fronte a tanti silenzi». Col senno di poi, forse sono proprio quei silenzi - il gruppo che si chiude e lo scandalo che diventa politico (vi furono interrogazioni parlamentari) - che hanno ostacolato la ricerca della verità».

26/1

Siamo grati al sospettato o a chi mai avesse inviato la lettera anonima!! Nei lembi della busta infatti non compare il Dna dell’uomo arrestato. NON C'E' DNA, che sollievo! 


"Ma come, se anche Jack lo squartatore l'ha lasciate le tracce? Qui no. I periti e i controperiti e i contro controperiti vadano a casa! Binda nel frattempo, tramite i suoi avvocati, Sergio Martelli e Roberto Pasella, ha deciso di fare ricorso in Cassazione per ottenere la scarcerazione. In particolare gli avvocati contestano il fatto che non ci sia allo stato attuale pericolo di fuga né un serio pericolo di inquinamento delle prove. Binda sapeva infatti da luglio di essere sospettato e da agosto di essere indagato però non ha nascosto le agende e nemmeno ha cercato mai di fuggire. 
Se si fosse chiamato Coppi o Bartali magari poteva anche andare in fuga! 

28/1
NON CI SI PUO' CREDERE!

Incredibile affermazione n. 1 della PG: «Coloro che ritengono di avere informazioni utili, troveranno la nostra porta sempre aperta. La finalità del processo è quella di accertare la verità, qualunque essa sia». Ma come? Il PG Carmen Manfredda rivolge un appello a chiunque possa dare informazioni utili, dopo 29 anni, sull’omicidio di Lidia Macchi!!!

Il magistrato si è recata oggi, mercoledì’ 27 gennaio, a Varese, per depositare la richiesta di archiviazione nei confronti di Giuseppe Piccolomo, l’uomo che era stato indicato come il principale indagato per il delitto avvenuto il 5 gennaio del 1987 a Cittiglio.

Tornando a Lidia Macchi, il magistrato ha confermato che l’inchiesta prosegue e che saranno sentite altre persone.

Incredibile affermazione n. 2: "Ha ricordato che la legge impone alla pubblica accusa di cercare anche le prove dell’innocenza dell’indagato e che è stato fatto quanto necessario per esplorare questa ipotesi"!!!

Infine ha ammesso che la pressione mediatica sul caso è molto forte e richiamato tutti, anche la stampa, al senso di responsabilità e al rispetto dei ruoli.

29/1
Come si poteva prevedere la storia sta ormai sfuggendo di mano agli inquirenti. La stampa incalza alla ricerca dello "scoop" e le notizie si sovrappongono. Un barriera di rumore ormai!
«Ma se ho tirato io in ballo Binda»
«È un periodo lontanissimo — spiega don Giuseppe Sotgiu — e non sapevo tutto quello che faceva Stefano. Lui partecipava agli incontri di Gs, io facevo già l’università, quindi avevamo riferimenti diversi. La vacanza a Pragelato? Sinceramente non ricordo». Nei giorni scorsi il nome di don Sotgiu è finito su tutti i giornali, lui ha deciso di non leggerli. L’eco di quello che il prete definisce un «bailamme di notizie impressionante» è arrivato anche nella parrocchia torinese in cui risiede (San Benedetto Abate), «ma in forma privata, senza incarichi pastorali. E ringrazio Dio, in questo momento, di non essere esposto come persona pubblica, altrimenti non saprei cosa spiegare a chi dovesse ricevermi come sacerdote». Ma se accadesse, se fosse ancora parroco direbbe «che non c’entro niente, che non ha senso dire che ho creato un alibi a Binda, visto che sono stato io a chiamare Stefano dentro questa situazione».


02/02

Uno scoop. Il settimanale “Giallo”, nell’ultimo numero ha reso noti in esclusiva alcuni passaggi della perizia compiuta sulla lettera da parte della psicoterapeuta Vera Slepoj (*). Ciò che è emerso è un quadro dettagliato del presunto assassino il quale appare un giovane attratto dalla vittima ma allo stesso tempo turbato e crudele. Secondo la perizia della psicoterapeuta emerge l’identikit di un uomo religioso, oggetto di un rifiuto ma che dimostra di essere stato coinvolto nella vicenda, rendendolo noto pur in modo inconsapevole. “La poesia è un atto liberatorio”, ha aggiunto la Slepoj, “E’ una sorta di tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie responsabilità”.

Ci mancava solo questa! Peggio della maga Zoraide: interpreta il carattere dallo scritto, dando per scontato che il colpevole sia Binda.



(*)Per chi non la conosce qui c'è una biografia dettagliata (anche se un po' malignetta) della psicologa sedicente grafologa: Vera Slepoj (http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/Vera_Slepoj)
Qui riporto l'incipit.
Nata nell'isola di Lesbo nel 666a.C., Vera Slepoj impara a leggere e scrivere prima ancora di imparare a parlare. Dopo il primo anno dalla nascita, uccide il padre per non dover attraversare la fase freudiana dell'invidia del pene.  
Non appena impara a camminare, fugge da Lesbo perché temeva che il nome dell'isola natale potesse incidere sulla sua sessualità. ...


04/02



Caso Macchi, un vizio di forma azzera l’incidente probatorio

I giorni utili per fissare l’eventuale udienza sono passati senza che nessuno avesse notizie. Ieri il silenzio ha avuto spiegazione: a Binda non sarebbe stato notificato in carcere

08/02
Si avvicina il momento dei testimoni-chiave dell’inchiesta sulla morte della studentessa di Comunione e Liberazione. Il gip di Varese, Anna Giorgetti, ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, di ascoltarli con la formula del’incidente probatorio. La data dovrebbe essere quella del 15 febbraio. Verranno sentiti, fra gli altri, Patrizia Bianchi, amica di Binda e come lui militante di CL, la donna che ha fatto riconoscere la grafia di Binda nello scritto anonimo «In morte di un’amica» recapitato alla famiglia di Lidia il giorno dei funerali; don Giuseppe Sotgiu, all’epoca amico del cuore di Stefano Binda; Paola Bonari, l’amica e compagna di appartamento a Milano a cui Lidia Macchi fece visita in ospedale a Cittiglio, poche ore prima di essere uccisa; Stefania Macchi, sorella della vittima. I difensori di Binda, Sergio Martelli e Roberto Pasella, si erano opposti all’incidente probatorio. La loro offensiva contro l’arresto è affidata a un ricorso in Cassazione.

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