domenica 11 dicembre 2011

Fabbro o detective? (III)

Un mestiere difficile

Sembra facile …

fare il detective nel Rinascimento!



Parte III
Quinta domanda: un po’ diversa la presenza e la posizione di Bertuccio rispetto agli stilemi del giallo storico?
Sì, volutamente. Questa moda di far indagare i personaggi famosi mi ha sempre disturbato un po’: ho voluto prendere le distanze ribaltando i ruoli. Nelle mie storie chi conduce la danza è un semplice artigiano, un tecnico proiettato nel futuro, un uomo che non ha legami col passato e che intuisce il progresso in atto. I personaggi famosi (più di lui radicati nel medioevo) lo assecondano, lo aiutano, ma non sono loro gli agenti del cambiamento. A volte, addirittura, non capiscono neppure bene quello che fanno.

Bertuccio fin dall’inizio è combattuto tra il desiderio di scoprire la verità e l’aspirazione a sviluppare la sua arte. E’ per questo che capisce presto una cosa: la verità è scomoda per lui e poco gradita ai potenti. In questo, oltre che ai fatti storici, ho tenuto conto del libro Capitalismo e civiltà materiale di Fernad Braudel. Lo storico francese descrive una società a strati: facile attraversarla longitudinalmente, molto difficile, anzi impossibile, in verticale. Svelare i misteri del livello superiore non procura meriti, ma attira le punte dei pugnali nascosti nell’ombra. La stessa cosa sarebbe successa a Machiavelli o a Leonardo che sarebbero rapidamente defunti di morte violenta. Infatti, a quanto ne sappiamo, in realtà si sono guardati bene dal mettere a nudo le magagne di ricchi potenti (reali o potenziali) mecenati. Acquisita questa consapevolezza, Bertuccio si “rifugia” nella sua arte.
Sesta domanda: ci sono precedenti letterari che sono tuoi riferimenti?
Per quanto ne so, direi di no. In realtà sono stato parecchio influenzato da Theodore Mathieson. Pubblicò nel 1959 The great “detectives con prefazione di Ellery Queen. Il Club degli editori (Mondadori) nel 1961 lo pubblicò in Italia con un titolo orribile: Quando il genio indaga. La traduzione era di Luciano Bianciardi, una delle massime personalità letterarie e culturali della seconda metà degli anni cinquanta. Ci sono raccontate undici indagini fatte da Alessandro Magno, Leonardo da Vinci, Hernand Cortes… Allora mi affascinò parecchio, ma avevo solo sedici anni. Ripreso in mano dopo Il nome della rosa di Umberto Eco, mi fece arrabbiare. Che ne sapeva costui del modo di ragionare di Leonardo da Vinci o di quello di Cervantes? Mi innervosì ancora di più Margareth Doody che, ispirandosi a Mathieson, cominciò a proporci Aristotele detective con innumerevoli sequel. Solo che passare da racconti di 15 pagine a tomi di 350 pagine è una vera e propria violenza! Non solo al lettore, anche al personaggio. A sentire lei Aristotele passava il suo tempo a fare il Poirot; che filosofia: “ordine, metodo e cellule grigie”!
Avrete capito che le mie storie sono volutamente strutturate in modo opposto, anzi contrapposto, a quelle della moda ormai dilagante. Io cerco di puntare i riflettori sull’uomo non sul genio.
Postilla
La domanda di un frequentatore del blog: Nel primo racconto ci si riferisce all’inverno, ma si è all'inizio di dicembre. Il secondo è ispirato alla primavera, ma siamo ancora in inverno... Così anche negli altri due: ha un senso?
Me n’ero dimenticato, e dire che se n’era parlato a Viareggio e anche a Montevarchi. Volutamente, per esaltare il momento di cambiamento, pongo le storie in un momento di transizione tra una stagione e la successiva: anche il meteo dev’essere incerto e ambiguo. Come il 1493 e il ‘94 sono anni di transizione tra il Medioevo e il Rinascimento così le stagioni sono ancora indefinite. Tutto, anche Bertuccio (come ho già detto), vuole esprimere questo cambiamento in atto. Il mondo sta cambiando grazie a Colombo, la Cristianità grazie ai Re di Castiglia e la Signoria di Firenze a causa della morte improvvisa di Lorenzo dei medici.

In un paese del contado, in quegli anni, niente può ancora cambiare. Non c’era altro modo, per esprimere il movimento verso l’era moderna, che collocare le storie nei giorni dove stava per arrivare la nuova stagione. Quindi ha un senso: esprime il divenire in quel microcosmo agricolo commerciale, che era allora Monte Varchi.
Una domanda di un giornalista radio che già aveva letto le storie di  : Cosa hai provato a far agire i tuoi nuovi personaggi e, in parallelo, quelli storici famosi non inventati da te?
Per i personaggi da me inventati tutto si è svolto più o meno come per le storie di Corto. Prima ho definito la “location” (per la Versilia di Corto c’è stato un po’ meno lavoro), poi ho disegnato i personaggi coi loro caratteri e le loro specificità. A quel punto hanno preso vita ed agito “quasi in autonomia” nel teatro da me predisposto.
Per i famosi, parlo di Michelangelo, Marsilio Ficino, Filippino Lippi … il discorso è diverso. Non sono frutto della mia fantasia e quindi ho dovuto, in qualche modo, far loro violenza. Ho cercato di immaginarmeli come potevano essere in un momento particolare della loro esistenza. Michelangelo giovane spaesato e preoccupato per esser scappato da Firenze; il Ficino un po’ provato dalla vecchiaia, Filippino di ritorno da Roma che scopre che a Firenze sta montando la “rivoluzione” del Savonarola … All’inizio avevo qualche timore (non volevo peccare né di presunzione, né d’irriverenza), poi ho scoperto che anche “loro” si prestavano al gioco e devo dire che si sono proprio “comportati bene!”.
(fine)

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