Il
lato oscuro del delitto
Interviste
improbabili
sui
lati noir della linea d’ombra
Intervista n. 3
L’ambulatorio in Baker street
Questa
volta niente multe: la macchina del tempo era al sicuro in un piccolo magazzino
di birra al n. 218 di Baker street. Quando, poco più avanti a sinistra, fui
davanti al portone del 221B rimasi interdetto:
Doyle&Watson
ambulatorio specialisti
associati
traumi, lesioni e amputazioni.
Due
medici? Io cercavo il famoso investigatore Sherlock Holmes. Eppure il numero
era giusto e la strada anche. Stavo per andare a chiedere al negozio di scarpe
che era dall’altra parte, quando il portone si aprì.
Si
affacciò indeciso un uomo alto con lo sguardo fiero e penetrante. Avrebbe
potuto incutere rispetto se non avesse portato, calzato sul cocuzzolo della
testa, un ridicolo berretto di una misura troppo piccolo; a due tese poi: una
davanti ed una di dietro! Mi puntò contro la sua pipa Peterson modello
standard.
<<
Lei mi sta cercando, non vorrà andarsene! >>
Come
faceva a saperlo? Non mi dette tempo di parlare: sembrava leggermi nella mente.
<<
Come faccio a saperlo? Quando
hai eliminato l'impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve
essere la verità. >>
Una frase senza senso:
avevo davanti un povero idiota. Chissà, mi scrutava troppo severo. Mi derideva
da sotto i baffi o era solo il segno della sua demenza?
<< Elementare.
Lei non ha traumi evidenti, è giovane, con un bel colorito: non ha certo
bisogno di un medico. Per quanto improbabile, resto solo io! Qual è il suo
problema? >>
Osai.
<< Lei.
>>
Aggrottò le
sopracciglia, si mise la pipa tra le labbra e aggiustò la lente d’ingrandimento
che gli spuntava dal taschino della giacca.
<< Io non sono
un problema, sono la soluzione … di tutti i problemi. >>
Indubbiamente uno
scemo, non sentivo più nessun timore, avevo ritrovato la mia naturale
sicurezza.
<< Proprio
tutti? >>
<< Certo, ha
forse dei dubbi? >>
<< Se sapessi
chi ho davanti … potrei valutare. >>
<< Non mi ha
riconosciuto? Sono su tutti i giornali. >>
La mia espressione
era inequivocabile.
<< Ma da dove
viene, sono Sherlock Holmes! Perbacco, sono apparso anche sul New York Time! >>
Il dubbio di averlo
mal giudicato mi attraversò la testa solo per un attimo; ormai volevo mantenere
in mano il gioco.
<< Ma sì, ora
che me lo dice! Sa che lei è fotogenico, al naturale sembra parecchio più
vecchio. >>
Si lisciò i baffi.
<< Cosa desidera?
Si sente minacciato? >>
<< No, no. Solo
intervistarla. >>
Fece un mezzo passo
indietro. Il suo sguardo tradiva sospettoso timore.
<< Non mi vorrà
chiedere, anche lei, di mio figlio? >>
In realtà ero venuto
per il Dr. Watson, ma capii subito che mi si presentava uno scoop imprevisto.
Usai il poco che sapevo.
<< Be’, sa con
un figlio obeso come il suo … ora che è diventato famoso. >>
<< Nero, il
lupo della Boemia, come l’hanno stupidamente chiamato, deve a me la sua fama … in
realtà non indaga: coltivava fiori. >>
S’era incupito.
<< Quanto
alla sua orribile opulenza. Sua madre Irene l’ha alimentato male: troppe patate.
E’ arrivato a New York magro e affamato: ora non mangia che caviale, ma in
quantità oscene. Ci fa anche colazione al posto del pudding. >>
Spalancò il portone.
<< Entri, svelto.
Non mi va di parlare delle mie cose per strada. >>
Nel corridoio, che
portava alla scala, si aprivano due porte. La targhetta di quella di sinistra
portava scritto Dr. A. C. Doyle, sull’altra si leggeva Dr. J. H. Watson. Apparvero insieme. Rimasi confuso, non sapevo da che parte
guardare. I due medici quasi non si distinguevano. Paglietta, giacca stazzonata
e lunghi baffi. Solo negli occhi una diversa falsa bonomia, sordido lo sguardo
di Doyle, bieco quello di Watson. In coro si rivolsero a Holmes.
<< Sherlock non
vorrai mica uscire? >>
Lui scosse timido la
testa.
<< No, no.
Facevo entrare questo … ehm, giornalista. >>
Il coro continuò in
stizzoso falsetto.
<< Non puoi
affaticarti; la ferita non si è ancora rimarginata, può sanguinare di nuovo, infettarsi.
E poi c’è quel colpo in testa … Torna subito di sopra. >>
<< Ma, e lui?
>>
<<
Moriarty ti ha conciato male, devi guarire al più presto. Forza, da bravo, vai
di sopra. Alle domande del signore rispondiamo noi. >>
Holmes
mi salutò mormorando tristemente “dicono
che mi mantengono, io mantengo loro!”. Forse avrebbe preferito morire
davvero per mano del suo nemico. Le preghiere dei lettori l’avevano salvato, ma
condannato a una specie di schiavitù, nemmeno tanto dorata. Quando fu in cima
alle scale ebbe un ultimo sussulto.
<<
Sia chiara una cosa: io a Nero non ho trasmesso la passione per le orchidee!
Anche questa è una fissa di quella pazza di Irene … >>
I
due “quasi gemelli” fecero un doppio ampio gesto di scusa, falsamente
sconsolato. Mi scortarono per il
corridoio e mi fecero accomodare in un salottino buio e polveroso. Si sedettero
a fianco su un divano davanti a me. “Perché
non si tolgono la paglietta”, mi chiedevo. Imbarazzato dai loro sguardi
fissi, presi io l’iniziativa.
<<
Chi di voi è il Dr. Watson? >>
Risposero
in coro.
<<
Io! >>
Forse
non mi ero spiegato bene. Posi un’altra domanda.
<<
Chi è il Dr. Doyle? >>
<<
Io! >>
Stessa
risposta, in cerimonioso coro e, ovviamente, sorridendo paterni. Cominciai a
pensare d’essere capitato in una gabbia di matti. Prima di rinunciare provai
ancora.
<<
Vorrei parlare con chi racconta le avventure di Sherlock Holmes. >>
<<
Noi. >>
Capii
che non avevo speranze.
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