giovedì 22 maggio 2014

Interviste impossibili (V)


Il lato oscuro del delitto
Interviste improbabili

sui lati noir della linea d’ombra




Intervista n. 3

L’ambulatorio in Baker street
Questa volta niente multe: la macchina del tempo era al sicuro in un piccolo magazzino di birra al n. 218 di Baker street. Quando, poco più avanti a sinistra, fui davanti al portone del 221B rimasi interdetto:
Doyle&Watson  
ambulatorio specialisti associati  
traumi,  lesioni e amputazioni.
Due medici? Io cercavo il famoso investigatore Sherlock Holmes. Eppure il numero era giusto e la strada anche. Stavo per andare a chiedere al negozio di scarpe che era dall’altra parte, quando il portone si aprì.
Si affacciò indeciso un uomo alto con lo sguardo fiero e penetrante. Avrebbe potuto incutere rispetto se non avesse portato, calzato sul cocuzzolo della testa, un ridicolo berretto di una misura troppo piccolo; a due tese poi: una davanti ed una di dietro! Mi puntò contro la sua pipa Peterson modello standard.
<< Lei mi sta cercando, non vorrà andarsene! >>
Come faceva a saperlo? Non mi dette tempo di parlare: sembrava leggermi nella mente.
<< Come faccio a saperlo? Quando hai eliminato l'impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità. >>
Una frase senza senso: avevo davanti un povero idiota. Chissà, mi scrutava troppo severo. Mi derideva da sotto i baffi o era solo il segno della sua demenza?
<< Elementare. Lei non ha traumi evidenti, è giovane, con un bel colorito: non ha certo bisogno di un medico. Per quanto improbabile, resto solo io! Qual è il suo problema? >>
Osai.
<< Lei. >>
Aggrottò le sopracciglia, si mise la pipa tra le labbra e aggiustò la lente d’ingrandimento che gli spuntava dal taschino della giacca.
<< Io non sono un problema, sono la soluzione … di tutti i problemi. >>
Indubbiamente uno scemo, non sentivo più nessun timore, avevo ritrovato la mia naturale sicurezza.
<< Proprio tutti? >>
<< Certo, ha forse dei dubbi? >>
<< Se sapessi chi ho davanti … potrei valutare. >>
<< Non mi ha riconosciuto? Sono su tutti i giornali. >>
La mia espressione era inequivocabile.
<< Ma da dove viene, sono Sherlock Holmes! Perbacco, sono apparso anche sul New York Time! >>
Il dubbio di averlo mal giudicato mi attraversò la testa solo per un attimo; ormai volevo mantenere in mano il gioco.
<< Ma sì, ora che me lo dice! Sa che lei è fotogenico, al naturale sembra parecchio più vecchio. >>
Si lisciò i baffi.
<< Cosa desidera? Si sente minacciato? >>
<< No, no. Solo intervistarla. >>
Fece un mezzo passo indietro. Il suo sguardo tradiva sospettoso timore.
<< Non mi vorrà chiedere, anche lei, di mio figlio? >>
In realtà ero venuto per il Dr. Watson, ma capii subito che mi si presentava uno scoop imprevisto. Usai il poco che sapevo.
<< Be’, sa con un figlio obeso come il suo … ora che è diventato famoso. >>
<< Nero, il lupo della Boemia, come l’hanno stupidamente chiamato, deve a me la sua fama … in realtà non indaga: coltivava fiori. >>
S’era incupito.
<<   Quanto alla sua orribile opulenza. Sua madre Irene l’ha alimentato male: troppe patate. E’ arrivato a New York magro e affamato: ora non mangia che caviale, ma in quantità oscene. Ci fa anche colazione al posto del pudding.  >>
Spalancò il portone.
<< Entri, svelto. Non mi va di parlare delle mie cose per strada. >>
Nel corridoio, che portava alla scala, si aprivano due porte. La targhetta di quella di sinistra portava scritto Dr. A. C. Doyle, sull’altra si leggeva Dr. J. H. Watson. Apparvero insieme. Rimasi confuso, non sapevo da che parte guardare. I due medici quasi non si distinguevano. Paglietta, giacca stazzonata e lunghi baffi. Solo negli occhi una diversa falsa bonomia, sordido lo sguardo di Doyle,   bieco quello di Watson.  In coro si rivolsero a Holmes.
<< Sherlock non vorrai mica uscire? >>
Lui scosse timido la testa.
<< No, no. Facevo entrare questo … ehm, giornalista. >>
Il coro continuò in stizzoso falsetto.
<< Non puoi affaticarti; la ferita non si è ancora rimarginata, può sanguinare di nuovo, infettarsi. E poi c’è quel colpo in testa … Torna subito di sopra. >>
<< Ma, e lui? >>
<< Moriarty ti ha conciato male, devi guarire al più presto. Forza, da bravo, vai di sopra. Alle domande del signore rispondiamo noi. >>
Holmes mi salutò mormorando tristemente “dicono che mi mantengono, io mantengo loro!”. Forse avrebbe preferito morire davvero per mano del suo nemico. Le preghiere dei lettori l’avevano salvato, ma condannato a una specie di schiavitù, nemmeno tanto dorata. Quando fu in cima alle scale ebbe un ultimo sussulto.
<< Sia chiara una cosa: io a Nero non ho trasmesso la passione per le orchidee! Anche questa è una fissa di quella pazza di Irene … >>
I due “quasi gemelli” fecero un doppio ampio gesto di scusa, falsamente sconsolato.  Mi scortarono per il corridoio e mi fecero accomodare in un salottino buio e polveroso. Si sedettero a fianco su un divano davanti a me. “Perché non si tolgono la paglietta”, mi chiedevo. Imbarazzato dai loro sguardi fissi, presi io l’iniziativa.
<< Chi di voi  è il Dr. Watson? >>
Risposero in coro.
<< Io! >>
Forse non mi ero spiegato bene. Posi un’altra domanda.
<< Chi è il Dr. Doyle? >>
<< Io! >>
Stessa risposta, in cerimonioso coro e, ovviamente, sorridendo paterni. Cominciai a pensare d’essere capitato in una gabbia di matti. Prima di rinunciare provai ancora.
<< Vorrei parlare con chi racconta le avventure di Sherlock Holmes. >>
<< Noi. >>
Capii che non avevo speranze. 

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