lunedì 14 settembre 2015

En attendant Sarzana (I)



En attendant Sarzana
In attesa di incontrare gli amici di Sarzana nella splendida Sala Consiliare ho il piacere di pubblicare in anteprima (sarà distribuita ai presenti il 9 ottobre) questa recensione di Carmen Claps. Confesso che vi ho trovato osservazioni e focus di cui neanche io, l'autore, avevo consapevolezza.
Recensione a
Il Verso della Civetta
di Oscar Montani
a cura di
Carmen Claps


parte I

La vicenda
Montevarchi, inizio estate 1927. A distanza di circa tre anni dalla serie di omicidi raccontati ne “La ragazza dello scambio”, il dottor Idamo Butini, medico condotto con la passione, o meglio, l’ossessione dell’indagine, si trova di fronte a tre morti violente, che avvengono nel giro di pochissimo tempo. I morti paiono non aver nessun collegamento particolarmente significativo tra di loro, se non il fatto che le loro vite ruotano intorno alla piazza principale della cittadina.




La struttura
Come in tutte le opere del nostro autore, la narrazione è in prima persona. Oscar adotta la soluzione che già ci aveva intrigato ne “La ragazza dello scambio”: Idamo racconta molti anni dopo che i fatti si sono verificati. Parrebbe che gli atroci ricordi di quella terribile estate siano definitivamente cancellati o almeno ben sepolti da tutto quello che è accaduto nel frattempo, ma, un bel giorno o un brutto giorno, qualcosa li risveglia, più nitidi e più dolorosi che mai.


Ciò che scatena quegli intensi flash – back è una vecchia scatola arrugginita, abbandonata in una soffitta polverosa, che contiene oggetti dal valore venale assolutamente trascurabile, di piccole dimensioni, ma che, in realtà, alla resa dei conti, si rivelano ricchi di significato e di importanza. Idamo li ritrova per caso, dopo anni e comincia a ricordare. Il fatto che racconti a posteriori lo mette certo in posizione privilegiata rispetto al lettore: mentre narra sa già come tutto andrà a finire; per questo (ma, naturalmente, ce ne accorgiamo solo a lettura ultimata) dissemina la narrazione di maliziosi indizi, più o meno velati e anche di malandrine false tracce. Per questo vi ripeto che il romanzo, come del resto un po’ tutte le opere di Oscar, ad ogni lettura si apprezza ancora di più e ci offre incredibili scoperte.
Ripeto che il nostro investigatore racconta anni dopo il verificarsi di quei fatti atroci, ma il tempo non lo ha per nulla aiutato a metabolizzarli, anzi, l’angoscia che provò a quel tempo ora, a ricordarli, se possibile è ancora maggiore.
Importante osservare che, come in tutte le opere di Oscar, segnatamente quelle dedicate a Bertuccio, anche in questo romanzo vita privata del protagonista e della gente comune e vita pubblica, cioè l’aspetto socio – politico – economico si fondono e si confondono, si illuminano a vicenda. E il nostro protagonista, con le sue avventure, ci offre un quadro completo dell’epoca: la vita spicciola di tutti i giorni e la storia, con il rapporto del tempo tra Stato e Chiesa, due istituzioni che cercavano entrambe disperatamente il potere, ma che si rendevano perfettamente conto di avere bisogno l’una dell’altra, tanto è vero che, nel giro di pochi anni, si arriverà al Concordato.
Idamo, proprio nelle primissime pagine, ci tiene a spiegare che vuole raccontare, forse più a se stesso che agli altri, per capire. Capire cosa? Le motivazioni più profonde, più nascoste di quelle tre morti. Più o meno direttamente da questa osservazione discende il fatto che questo romanzo è a una struttura ciclica, è ricco di rimandi, ritorni, riferimenti, anche a “La ragazza dello scambio” e di ghiotte anticipazioni della terza puntata della saga di Idamo, di cui ho avuto il privilegio di leggere la prima stesura.
Essendo un romanzo di Oscar, possiamo tranquillamente etichettarlo sotto la formula “nulla è come sembra”. In apertura la vicenda parrebbe andare in una determinata direzione, invece i fatti stanno da tutt’altra parte. Simbolo perfetto di tutto questo è “un medico socialista travestito da prete facente funzione di carabiniere”.
In realtà il romanzo ci presenta due storie che si intrecciano e proseguono contemporaneamente, coinvolgendo Idamo in tutte le sue energie fisiche, mentali, affettive, come uomo e come investigatore. Oscar è talmente abile che il lettore quasi non si rende conto che le due vicende nulla hanno in comune, una decisamente pubblica, sociale, definiamola così, l’altra squisitamente privata, personale, ma sono entrambe inequivocabilmente e direttamente figlie del loro periodo. Pensate che addirittura alcuni elementi, alcuni indizi dell’una vengono attribuiti all’altra e dal lettore e dagli inquirenti, perché, lo ripeto per l’ennesima volta, nel romanzo e quindi nella realtà nulla è come sembra. Le due storie rappresentano in sintesi a meraviglia quello di cui parlavo poco fa, cioè la storia con la S maiuscola e quella con la s minuscola e ci danno così il quadro completo di un’epoca.

Suoni, colori, immagini e . . .
Il titolo racchiude tutta la vicenda e questa è un’abilità incredibile del nostro autore; era stato così per “La delta velata”, “L’oro degli aranci” e “Eikones”, tanto per fare solo tre esempi importanti, i romanzi dedicati a Corto. Per quel che riguarda quest’opera, pensate agli svariati significati dei vocaboli verso e civetta e avrete pronta tutta ma proprio tutta la vicenda: l’input, lo scioglimento, la soluzione. Mi spiego, sperando di non svelare troppo: tutto si scatena, in un certo qual modo, per le moine di una ragazza provocante; tutto è accompagnato dalle rime attaccate al plafond che porta le locandine di un quotidiano, rime che ci offrono argute narrazioni, salaci commenti, geniali intuizioni; lo stridio del rapace è l’originale, intrigante ma senz’altro inquietante colonna sonora della imperdibile scena finale. E tra l’altro, visto che, l’abbiamo detto poco fa, nel romanzo nulla è come sembra, non sarà una civetta a stridere, ma qualcuno che, guarda caso, le fa il “verso”. Geniale, eccezionale che l’accezione più immediata del titolo, cioè lo stridere di quel rapace venga usata una volta sola, proprio a inizio vicenda, come a suggello, ma anche per sviare e ingannare il lettore.


Nel romanzo domina il rosso, rosso sangue. Rimangono impresse nella mente del lettore le immagini dell’anziana precipitata dal suo balcone, sotto il cui corpo si allarga una pozza di sangue e dell’edicolante, “sgozzato come un maiale” (precisa l’autore senza falsi pudori) dentro il suo gabbiotto di ghisa verde, il luogo nel quale, in teoria, doveva sentirsi sicuro e padrone. Dalla sua gola squarciata il sangue scorre come il vino quando si spilla una botte. Efficacissimo l’effetto cromatico: il verde del gabbiotto, il rosso del sangue, il grigio della pavimentazione. La morte è sempre oltraggiosa, ma qui vediamo anche l’orribile post mortem, con quegli insetti, mosche, mosconi, vespe ecc. . . che, dato quel caldo, si accaniscono e banchettano su quei corpi. Oscar usa addirittura il verbo scarnificare per descrivere l’effetto. Mi preme precisare subito che in quelle descrizioni non c’è nulla di morboso, di grandguignolesco, di effetti alla Dario Argento, al contrario, emerge tanta delicatezza, un pudico senso di umana pietas. Quanto alle immagini ricorrenti due (o forse tre?) loschi figuri con un cappellaccio in capo, vestiti con abiti stazzonati, rigorosamente neri, fuori misura, grandi e grossi, che appaiono a scandire i momenti più delicati e più significatici della vicenda. Chi sono? Membri dell’OVRA, verrebbe da dire, dato l’aspetto. Ma, ve lo ripeto, nulla è come sembra e ciò che sembra.
Devo riservare due note ad altri due stilemi molto importanti, mi riferisco all’annuire e al fare una smorfia, vero e proprio leit motiv. Leggendo vi renderete conto che Idamo, soprattutto con le persone a lui più vicine, quelle di cui si fida di più, comunica innanzitutto a cenni. Quando la sintonia è davvero profonda, le parole passano in secondo piano. Basta l’espressione: così ricorrono frequentissimamente i verbi annuire e fare una smorfia. Naturalmente vedrete che chi annuisce lo fa talora preoccupato, talora sollevato, talora stupito e dopo, ma solo dopo, passa a spiegare il motivo del suo consenso. Ugualmente la smorfia può essere di disgusto, di dolore, ovviamente psicologico, di rabbia, di nervosismo. Il culmine si raggiunge quando, lo vedrete, un personaggio, verso la fine della vicenda, annuisce facendo una smorfia.

Carmen Claps

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