DONNE D’ARCANI MINORI
una
riflessione, più che una recensione, sul romanzo noir di Oscar Montani e soprattutto
su Corto che da dieci anni sta al timone della Delta, veliero costruito dalla Perini
Navi
di
di
Carmen
Claps
II
Corto
odia essere chiamato "comandante" o "capitano", vuole
essere sempre e soltanto Corto, il suo soprannome che ormai è diventato un vero
e proprio logo. A questo punto occorre sottolineare l’importanza dei soprannomi
nelle storie del nostro skipper. Il soprannome, a Viareggio, è ciò che ti dà
diritto di cittadinanza all’interno di un gruppo, è ciò che ti caratterizza, ti
stigmatizza in una particolarità fisica, psicologica, lavorativa. Finisce per
essere più importante del nome, che talora gli altri non conoscono e del
cognome che spesso viene addirittura dimenticato dalla legittimo proprietario.
È frutto di un colpo di genio, di una folgorazione improvvisa. A proposito
proprio nell’epilogo veniamo finalmente a conoscere il vero nome del
protagonista e per i lettori più attenti forse non è una rivelazione troppo
sconvolgente.
Corto
non ama agire da solo, né sul lavoro né nella vita privata, né, tanto meno,
nelle indagini. “Non amo navigare da
solo” afferma categorico. Quel verbo navigare sulla bocca di un uomo di
mare è perfetta metafora della vita in tutti, proprio tutti i suoi svariati
aspetti. A bordo si avvale della collaborazione della sua ciurma, fidata,
intelligente, capace. A terra la ciurma si defila per lasciar spazio a un
eterogeneo, bislacco gruppo di amici che Cinzia, senza pietà, ma con molto
realismo, è solita definire una sorta di "bizzarra" corte dei
miracoli. Questi amici sono il reparto investigativo speciale privato di Corto,
con le loro attrezzature artigianali, casalinghe, ma efficientissime. Non
sempre comprendono e condividono le iniziative e gli ordini del loro leader
indiscusso, comunque obbediscono sempre ciecamente e il risultato è garantito.
Lo scioglimento finale è il trionfo del gruppo in scene magistrali delle quali
vediamo ognuno dei membri con il suo compito specifico in base alle singole
competenze, capacità e inclinazioni. Costituiscono un meccanismo perfettamente
sincronizzato, complesso, delicatissimo e infallibile.
Corto
ha un’indole tormentata, è attanagliato costantemente da dubbi e incertezze,
anche se chi non lo conosce può giudicarlo spavaldo e granitico. Già nel
prologo il nostro, che narra sempre in prima persona, si presenta in questo
stato d’animo attraverso una fitta da serie di efficacissime metafore tratte
dal mondo della meteorologia. I suoi tormenti vengono assimilati, di volta in volta,
al buio, alla nebbia, alle nuvole. Corto ha il buio, la nebbia, le nuvole
intorno e dentro di sé, intorno a sé per gli enigmi nei quali è incappato,
dentro di sé per la sua situazione personale. Infatti è angosciato per la piega
che sta prendendo il rapporto con un amico e per il suo futuro lavorativo.
Infatti ha deciso in maniera irrevocabile (la lettera è pronta da un pezzo,
mancano solo data e firma) di dare le dimissioni da skipper; vuole aprire
un’agenzia di certificazione nautica in società con l’amico Berto. Non vede
l’ora di concretizzare questo cambiamento, ma appena gli si presenta un caso da
risolvere coglie al volo l’occasione per rimandare quelle benedette dimissioni.
Corto,
oltre che dai suoi tormenti, in quest'ultimo romanzo, è angosciato da fenomeni
sensoriali che lo accompagnano per tutto il corso della vicenda. Fenomeni che
riguardano udito e vista. Montani è abilissimo nel rappresentarli: lascia
sempre il lettore nel dubbio se quelle sensazioni siano reali o suggestioni
frutto di un animo e una mente inquieti. Solo quando il protagonista sarà
riuscito a spiegare l’origine di quei fenomeni, riuscirà a risolvere l’enigma
di quelle morti. Per quel che riguarda l’udito. La vicenda ha una colonna
sonora misteriosa, a dir poco inquietante: Corto sente una musica ossessiva,
per lui angosciante tanto che la paragona ad un deguello, la musica che in
Messico accompagnava le esecuzioni capitali. Capisce ben presto che non è
casuale, bensì ha il ruolo di messaggera del destino.
Per
quel che riguarda la vista, Oscar mette in campo quello che in scienza viene
chiamato effetto di Droste, cioè il moltiplicarsi all’infinito di un’immagine
posta tra due specchi paralleli. Prende il nome, inutile precisarlo,
dall’immagine sull’etichetta della scatola dei famosi cioccolatini. Questo,
che, in teoria, potrebbe essere anche un gioco, per il nostro diventa
un’esperienza sconvolgente e dire che ne è colpito proprio in ambienti
familiari, rassicuranti. Ma lo specchio con accezione se non negativa almeno
inquietante è da sempre presente nell’immaginario collettivo. Pensiamo alla
superstizione dello specchio rotto, pensiamo al mito di Narciso, allo specchio
della strega di Biancaneve, e in letteratura, tanto per citare solo due autori
locali, a “L’uomo che parlava allo specchio”, lo splendido, visionario romanzo
di Paolo di Bono, nel quale il protagonista cerca di parlare a se stesso e con
se stesso per recuperare la propria identità. Ancora “Lo specchio ritrovato” di
Ines Betta Montanelli, una raffinata raccolta di poesie nelle quali lo specchio
è una natura incontaminata, purtroppo ormai irraggiungibile nello spazio e nel
tempo. Lo specchio dovrebbe essere qualcosa che chiarisce, che mostra, che
aiuta a vedere ciò che altrimenti è impossibile vedere, come per esempio, il
nostro volto, ma spesso finisce per ingannare, per travisare. È proprio ciò che
capita a Corto.
Nel
romanzo ci sono alcuni luoghi simbolo, a Viareggio e dintorni, alcuni sono
luoghi per così dire pubblici, altri sono luoghi privati, riservati al
protagonista e alla sua corte, magari ispirati da luoghi realmente esistenti e
rielaborati dalla fantasia dell’autore. Fra i primi la gelateria bar Fappani o
meglio ex Fappani, perché ora ha cambiato gestione. Dalle descrizioni
sintetiche ma più che esaurienti di Oscar emerge tutta l’amarezza, tutta la
nostalgia per un mondo vero, con una ben precisa identità, che sta
inesorabilmente scomparendo, spazzato via dagli interessi economici e dalla
globalizzazione. In questo locale intanto il protagonista ha modo di rilassarsi
e fare scorta di energia con sostanziose colazioni, ma il bar è anche una sorta
di ufficio per il nostro skipper che vi si riunisce con gli amici per fare il
punto della situazione.
Ancora
le dune della Lecciona, alle foci del Serchio. Qui il gruppo si riunisce per
celebrare il rito goliardico e becero del primo bagno della stagione, nudi, con
tanto di pic nic a base di specialità casalinghe, rito questo che va
necessariamente officiato in gruppo. Ma le dune sono per Corto anche il luogo
della più profonda concentrazione per cercare verità nascoste; quest’altro
rito, invece, va celebrato in solitudine o, al massimo, in compagnia di
qualcuno che sappia ascoltarti e capirti, presenza silenziosa, discreta, ma
tangibile. Il luogo è talmente importante nella vicenda che proprio qui si
chiude la storia, con il protagonista che prima fa baldoria con gli amici, poi
si ferma a riflettere e riesce ad assaporare “Le urla del silenzio”. Ecco qui
accostate le due funzioni delle dune. Bellissima, struggente, inquietante
quell’ossimoro: le urla del silenzio. Da una parte suggerisce il senso di
sollievo, di liberazione del nostro investigatore che è finalmente riuscito a
venir fuori dal “frastuono” provocato da quegli enigmi e dai suoi dubbi
personali, dall’altra il senso di vuoto che, inevitabilmente, deve provare ora
che tutto è risolto.
Ancora
la Darsena, un miraggio e un incubo. È il luogo nel quale si annida un
microcosmo che vive di espedienti, diciamo pure di vera e propria illegalità,
un’umanità emarginata ed auto emarginante: ladri, borsaioli, truffatori,
spacciatori. Sembra un luogo lontanissimo, addirittura un altro mondo, eppure è
proprio lì, a due passi. Grande la soluzione adottata da Oscar: non la
descrive, non ne parla mai al presente, ma o al passato (qualcuno vi si è
recato per fare verifiche) o al futuro (qualcuno vi si dovrà recare). Questo
conferisce una decisa aura di mito al luogo; in questo modo il lettore scatena
la propria intelligenza e la propria fantasia, in base alla propria personalità
e alla propria formazione e, perché no, allo stato d’animo del momento, sempre
fondamentale per dar corpo alla parola scritta. In questo modo diventa parte
attiva e non fruitore passivo dell’operazione libro. Per uno scrittore questo è
il massimo.
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