La provincia
liquida
Analisi semiseria, forse irriverente, in tre
puntate, del lato oscuro della provincia italiana. Un luogo dove avvengono
terribili delitti, ma le ferite si rimarginano molto alla svelta; dove il tempo
non gioca a favore degli investigatori, dove gli eventi fluiscono senza sosta
…
(parte III)
Cosa
non è la provincia
L’idea,
quasi ottocentesca, che la provincia sia “chiusa” non è più vera, se mai lo è stata. Basta considerare quanto è praticato in
provincia il pendolarismo. E poi: l’omicida di Potenza era a Londra, a Perugia
c’era implicata una ragazza di Seattle e un giovane di Bari. Ricordiamoci anche
che si sospettava che il delitto di Garlasco fosse “maturato” a Londra!
Quanto
ai ruoli, ai caratteri “da format” della storia: non esistono più! La farmacia
è comunale e ci lavorano almeno una serqua di precari. Il prete, se c’è è serbo
o polacco. Il medico è un giovane neolaureato che si presta a fare guardie
mediche. La “signorina” disponibile viene dal Niger e ci ha il suo daffare su
un gelida piazzola lungo la statale …
I
detective nostrani sembrano ignorarlo e si comportano come se la Brianza fosse
nel massiccio a ponente di Salaparuta o il Salento nella Mongolia esterna! In realtà i potenziali e inconsapevoli
(spesso) testimoni parlerebbero, se solo fossero interrogati con interesse, metodo e
attenta discrezione. Gli indagati poi andrebbero subito “sanamente” torchiati;
ma è faticoso, impopolare, poco garantista … “Meno
male che ci sono i RIS”: a loro nulla sfugge! Pensiero liberatorio per
l’inquirente.
Niente
interrogatori: niente movente.
Dei
casi della lista non si conosce il movente. Né palese, né quello (per dirla secondo
la teoria del maresciallo Miglietta) sottotraccia. Trascurare gli interrogatori
(alla Maigret intendo: pressanti, continuativi e soprattutto stressanti!) causa
l’inquinamento della realtà. Due i meccanismi che agiscono.
La
provincia, che era disponibile a parlare nelle ore subito dopo il delitto, si
richiude, si consolida, solidifica. Il colpevole (che è attore-attrice con un
ruolo, nel suo contesto) ha il tempo di costruirsi una realtà che gli (o le)
consente di presentarsi credibilmente innocente. Male che vada il dubbio si
consolida, ma dubbio resta.
Arrivano
sulla piazza del paese i giornalisti delle testate e delle TV locali:
dilettanti allo sbaraglio (spesso si dilettano, visto che non sono neppure
pagati!) o precari (pure mal retribuiti) che cercano l’affermazione, lo scoop
della vita. Il servizio che li faccia notare: si muovono come segugi e, con le
loro becere interviste, innescano ogni specie di protagonismo.
La
realtà cangia presto in immaginario collettivo, in fantasia, quasi in festa
paesana; le testimonianze incrociate s’inquinano, si
contaminano a vicenda. Spesso l’investigatore lo percepisce, “niente paura, ci sono le tracce di DNA!”,
pensa per rincuorarsi. Ormai facili da rilevare, “vuoi mettere, rispetto alle impronte digitali!”, consentono la
costruzione di facili, fallaci e pericolosi teoremi. Qualche mese dopo, può
accadere che durante il processo l’impianto accusatorio mostri le sue crepe e
si smonti. Intanto nel villaggio anche il magma s’è rifatto liquido e il nuovo fluire delle cose fa ricordare solo un
passato senza macchie. “Taca banda”,
che la festa in piazza continui!
(3-fine)
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