lunedì 22 agosto 2016

Lo chalet recensito (II)

Come da tradizione e da lunga amicizia, Carmen Claps, critica letteraria di Sarzana, mi ha fatto avere questa recensione. Vediamo come giudica la pineta di levante di Viareggio e i suoi “indigeni”.

Delitti in pineta 

(II)
 

Per completare il quadro de Lo Chalet in pineta bisogna presentare i frequentatori abituali (Nota: i clienti extra, o di passaggio, sono insignificanti, assenti e in fondo non poi molto ben accetti, anzi guardati con spregio) con una rapida carrellata. Apre la sfilata, è giusto così, Pippo, il gestore, il moderatore nelle risse, il supervisore nelle partite a briscola, che ci tiene a mettere le mani avanti: “da Pippo trionfa sempre la democrazia, anche se nel mio chalet comando io”.

 


Poi il Bestia, sedicente fotografo high tech (forse un genio da silicon valley, chissà), che nel suo sconcertante laboratorio assembla inquietanti apparecchiature combinando pezzi del meccano del nipote e arnesi da cucina ormai inutilizzabili. E’ un gigante pelosissimo dal cuore tenero e la mente non sempre proprio pronta. A capire a fondo la sua indole sono stranamente le donne, che, infatti, non usano mai il soprannome, ma lo chiamano col suo nome anagrafico, Gianfranco o addirittura Gianfranchino.

C’è Ginko, personaggio enigmatico, tormentato agente capo di polizia, amico di Corto da una vita, col marchio della tristezza perennemente impresso sul volto, tormentato da un ambiguo episodio del suo passato per ora non chiarito, alla ricerca improbabile di rivalse gettandosi a capofitto in indagini pericolosissime che lui definisce parallele, cioè personali, cioè segretissime, cioè illegali.

 

 


C’è Teddi, fotografa di arte sacra ex pregiudicata, convertita da una strana suora spagnola grande esperta d’arte. Ancora c’è il suo fidanzato, il maresciallo dei carabinieri Maglietta (all’anagrafe Miglietta), che deve il soprannome al suo terrificante gusto cromatico che gli fa indossare pantaloni e magliette dai colori impossibili, che fanno letteralmente a pugni tra loro. E’ il tormento del gruppo perché ha due ossessioni, una generale e una particolare. La prima è che, nelle sue indagini il nostro è fissato sui moventi sottotraccia, cioè gli impulsi più nascosti, più remoti, più inconfessabili, magari inconsci che possono spingere una persona ad un delitto. Maglietta è assolutamente convinto e fiero di questa sua intuizione tanto da credere che anche i frequentatori dello chalet siano interessatissimi all’argomento.

 

 


 

La seconda ossessione è quella del caso del freezer del prete, di cui facevo cenno all’inizio, che lui non si capacita di non avere risolto e che avverte come una macchia indelebile sulla sua divisa. E’ appunto, come dicevo, questo rovello che lega i sei episodi. Maglietta affligge gli amici con questi tormenti che per tutti i personaggi (egli stesso e i clienti del bar) sono una vera e propria disperazione, mentre il lettore si può scatenare in grasse risate. Pensate che il buon maresciallo cerca addirittura di organizzare cicli di terrificanti conferenze (tipo i cineforum di fantozziana memoria) sull’argomento. Solo la disperazione riesce ad aguzzare l’ingegno dei malcapitati per escogitare geniali sistemi per sfuggire a quelle torture.

Ci sono due nuovi personaggi eccezionali. Uno è Gismondi, senza soprannome forse perché talmente fresco di ingresso nel gruppo che non si è ancora avuto il tempo di trovargliene uno azzeccato o forse perché non se lo è ancora meritato. E’ un preside di liceo in pensione, con una piccola, trascurabile caratteristica: è troppo sensibile al fascino femminile specie se trattasi di fanciulle in fiore. Di fronte ad una bella adolescente non sa proprio dominarsi: pensate che non riesce a trattenersi nemmeno davanti, cioè dietro, al bel lato B di una giovane suora. L’argomento è delicato diciamo pure scottante, eppure l’autore riesce a trattarlo con grande leggerezza, sia l’atteggiamento riprovevole di Gismondi che le reazioni che possiamo facilmente immaginare del gruppo.

 


La sorpresa più grande è un personaggio femminile. Questo non sorprende i lettori di Oscar: infatti il nostro autore circonda ciascuno dei suoi tre investigatori di grandi donne, di ogni età, personalità e ruolo, semplici cammei o vere protagoniste, vittime o colpevoli. Sarebbe inutile e dispersivo citarle, sono tantissime e indimenticabili. In questa raccolta Oscar inserisce suor Miranda. Già per il suo ingresso in scena adotta un effetto speciale straordinario: la suora compare come una nuvola bianca, a causa della sua divisa, a metà tra l’etereo e l’inquietante. Ma non è assolutamente un personaggio ultraterreno, ce ne rendiamo conto subito. Intanto è missionaria a Boromo, nel Burkina Faso, quindi costretta e ormai abituata ad affrontare ogni giorno miseria, malattia, violenza. Per spostarsi in quelle zone dimenticate da Dio e dagli uomini è diventata un’abilissima biker: la sua bici è ormai un’appendice del suo corpo. Da queste poche note vi siete senz’altro resi conto che suor Miranda ha proprio poco, per non dire nulla, della classica iconografia delle suore, chiuse nel loro mondo e fuori del mondo, spesso acide, severe, poco concrete. Suor Miranda è curiosa, è innamorata della vita, pur nella consapevolezza dei grandi mali che la travagliano, c’è immersa completamente, vuole conoscerla, vuole migliorarla, specie quella degli altri. Corto la incontra nel corso di un’indagine. La religiosa dimostra subito di che pasta è fatta, prestandosi senza esitare, con un sorriso un po’ sornione con un piglio e un entusiasmo tutto speciale. Naturalmente il suo contributo alla soluzione del caso risulta determinante, con una bella componente di divertimento. Accetta perfino di travestirsi.

A questo punto è d’obbligo una maxi parentesi in merito ai travestimenti. Questi sono una delle strategie preferite da Corto in coppia con Miglietta. Il maresciallo si diverte tantissimo a indagare in incognito, sotto mentite spoglie, “a fare i Serpico”, come dice lui. “E chi saremo?” Chiede eccitato, “contento come un bamboretto quando scarta i regali la mattina di Natale”. Naturalmente, come è giusto e doveroso in un’opera corale che si rispetti, tutto il gruppo partecipa al rito del travestimento: chi dispensa consigli, chi sbeffeggia impietoso, ma ci vuole anche questo, chi procura qualche oggetto utile. Quindi esilarante la recita, ma anche i preparativi. Spesso Corto e Miglietta usano oggetti molto casalinghi, che magari nulla avrebbero a che fare con lo scopo per cui vogliono usarli. In questi racconti vediamo per esempio Corto nei panni di un idraulico; con Miglietta impersona poi un sussiegoso, ma anche fintamente accomodante e condiscendente tecnico per la manutenzione caldaie. Questo è un brano da antologia, nel quale Oscar fa ricorso a un ubriacante gioco verbale per confondere una portinaia, sulla linea della supercazzola brematurata di Amici Miei. Nell’episodio che la vede al centro, suor Miranda si traveste, pensate il geniale paradosso, niente meno che da testimone di Geova. Fantastici i preparativi: il travestimento è curato nei minimi particolari, perfino i colori e lo stile degli abiti, perfino gli oggetti. Suor Miranda, che si è preparata in privato, risulta perfetta. Quale poi sia l’esito di questa recita è un’altra storia, anche questa godibilissima. Comunque ogni iniziativa di suor Miranda è finalizzata all’interesse della sua missione, per la quale è disposta proprio a tutto. Mi aspetto clamorosi sviluppi di questo personaggio.

Oscar ci regala anche splendide figure che sono solo semplici comprimari, oppure comparse o addirittura solo cammei. Cito Giulia, ex Giulio, un trans che don Sesto ha redento reclutandola come animatrice nel suo oratorio e che fa anche la drag queen con un certo successo. Ancora Taitan che era più di una promessa del calcio e che, per un infortunio, dai sogni di gloria negli stadi della serie A, si è trovato precipitato nella disperazione di una zoppia permanente. Soprattutto penso al Gibboso. Come indica inequivocabilmente il soprannome, ha una gobba sulla schiena. E’ un personaggio che fa parte di quella umanità tutta particolare della darsena. Campa di illegalità, per esempio di spaccio. Molto acuto lo studio della sua personalità tormentata, solo in apparenza menefreghista e strafottente.

                            Carmen Claps

 

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