giovedì 2 marzo 2017

Poliziotti e giudici (I)



Il "poliziottesco", 
un genere quasi tutto italiano
Parte I

La nascita di un sotto genere di maniera
Premetto che non ho mai amato questi film. Forse riflettevano, anticipandone gli umori peggiori, il clima dell'epoca, forse ero abituato ad altra roba di qualità superiore chissà? Prendetemi con le molle.
Il poliziesco autarchico, detto con spregio e irriverenza “poliziottesco” (sopravvalutato nel bene, sottovalutato nel male sociale), nasce alla chetichella, anche se il film aveva un po' di spessore, con Banditi a Milano, del 1968. Nasce in seguito alla brutta sorpresa, non ancora digerita dai milanesi, della rapina con mitra alla gioielleria di Via Montenapoleone. A Milano saranno ambientati molti altri film.


Come sottogenere di risulta, il poliziottesco conosce la sua stagione aurea quattro anni dopo (segiterà per tutti  gli anni ’70) sulla scia del successo ottenuto da La polizia ringrazia  (1972) con Enrico Maria Salerno: diventato famoso (più per la voce che per la sua arte) come doppiatore di Clint  nel ciclo dei dollari. L'idea di questo film (firmato Steno col suo vero nome, Stefano Vanzina)  è di mescolare, ben shakerati, il cinema “politico” indigeno (ad esempio:  Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica del 1971) con  film d’azione provenienti da Hollywood, quali Il braccio violento della legge  (1971) di William Friedkin o  Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo  (1971) di Don Siegel.

Come voler fare la pappa col pomodoro mettendoci i pomodori di Pachino! Incauti, poi scoprono che i pachini non ci sono e si usano le rigovernature: gli avanzi di sceneggiature precedenti! Giovannino Stoppani docet.
I due titoli ricordati, col più tardo  Il giustiziere della notte  (1974) di Michael Winner (ma la pappa era già pronta: "c'è un altro frate,  brodo lungo e seguitate!"),  saranno le più evidenti fonti d’ispirazione del filone. In realtà il genere era stato seminato e trapiantato anni prima.

Affonda le radici in anni precedenti: in opere di valore come La banda Casaroli  (1962) di Florestano Vancini, Omicidio per appuntamento  (1967) e  Gangster ’70  (1968) di Mino Guerrini. Soprattutto, come ho detto e credo,  Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani.  
L'aria del '68 (un vento forte in verità) non fu benevola verso questo sotto genere alla carbonara. Considerati dalla critica del tempo rozzi e reazionari, i lavori   sono in realtà incentrati sul ritmo e basati sulle scene d’azione: i contenuti passano in secondo piano ed il messaggio “d’ordine” purtroppo, anche non era desiderio degli autori, non pare strettamente funzionale a creare motivazioni che consentano ai personaggi di agire. Il via alla produzione in serie nel settore lo danno gli abnormi incassi ottenuti nel ’75 da Roma violenta  di Franco Martinelli,  da allora in poi, gli schermi dei cinemini di terz'ordine saranno invasi da uno tzumnami  di prodotti similari, più o meno ispirati e poco professionali.

Se Roma a mano armata (1976) e Napoli violenta  (1976) di Umberto Lenzi e  Italia a mano armata  (1976) di Marino Girolami si limitano a seguire in maniera pedissequa le orme del capostipite.

Ripropongono, fino alla nausea, l’interprete principale Maurizio Merli. Risultati migliori vengono di rado ottenuti dagli stessi cineasti in ambiti meno stereotipati: Lenzi, ad esempio, con Milano rovente (1973) fornisce un potente spaccato di vita malavitosa, dai suggestivi toni noir.

Infine, mi dispiace citare Milano odia la polizia non può sparare  (1974) e L’uomo della strada fa giustizia (1975). Sono, a mio avviso, fonte di tensione e pessimismo improduttivo. Queste violentissime, assai personali e improbabili riletture dei citati modelli statunitensi, sono dense di una amarezza che non è d’accatto (credo che sia portroppo meditata) e una competenza tecnica che ha poco da invidiare a quella dei colleghi americani, ma, ripeto, generano sconforto: ricordate che siamo alla vigilia degli anni di piombo.

(I-segue)

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