lunedì 28 maggio 2018

Morti da salotto (II)


Macchine di morte
Una recensione al romanzo




Morti da salotto
di Oscar Montani
a cura di Carmen Claps
(II)



Da questi primi tratti il nostro "proto investigatore" potrebbe sembrare un tipo granitico, deciso e invece vive all’insegna del dubbio. 

Il dubbio, do po che il Granduca gli ha "affibbiato" il pericoloso incarico di spia,  domina in crescendo la sua vita (da ricercatore, non da investigatore!), la sua vita professionale (e questa è una cosa decisamente positiva per uno scienziato perché, in questo modo, è continuamente spronato ad andare avanti, a verificare, a non accettare verità precostituite o imposte da altri), e la sua vita privata e di relazione. La riflessione sul dubbio è una delle prime che gli sentiamo fare, proprio all’inizio del romanzo, come a voler subito mettere in chiaro le cose. Il portavoce, la personificazione del dubbio, l’interfaccia di Raimondo è il suo assistente, il giovane Licurgo Maria, che il padre ha battezzato con questo nome altisonante e impegnativo in onore del grande legislatore perché sperava di farne uomo di legge. 

Bel personaggio Licurgo, proprio per quel fardello di dubbi, di curiosità, di rovelli che lo tormenta. E con quei dubbi tormenta a sua volta il nostro professore: proprio in apertura, infatti, se ne esce con un quesito significativo e non da poco: “Maestro, ma noi chi siamo?”. Che poi è un po’ un ritornello sulla sua bocca che fa innervosire non poco Raimondo il quale ritiene che l’unico degno del titolo di "maestro" sia il suo maestro, cioè l’illustre scienziato Carlo Alfonso Guadagni, un personaggio realmente esistito. È un po’ lo stesso atteggiamento di Corto, lo skipper, che va in bestia quando lo chiamano comandante, perché per lui l’unico comandante è il suo amico, mentore, consigliere (e poi socio) Berto. Invece il fabbro Bertuccio va in brodo di giuggiole quando qualcuno si rivolge a lui con l’appellativo di mastro, specie se questo qualcuno è una bella ragazza.
Tornando a Raimondo, si è detto che si trova a fare la spia e il modo con cui il nostro autore tratta l’argomento è davvero raffinato ed intrigante: lo sviluppa su due piani. Mentre Raimondo sta vivendo la situazione lo vediamo preoccupatissimo (“ero in un mare di guai”), spaventato, spaesato, ma, a distanza di tempo dal verificarsi degli eventi (Raimondo racconta la sua avventura circa trent’anni dopo), filtra tutto attraverso l’ironia, l’autoironia e si prende garbatamente, ferocemente in giro.
Molto intrigante anche la trovata che il nostro protagonista sia descritto, o meglio, si auto descriva attraverso tre personaggi fondamentali per lui e per la vicenda specifica che, però, non vediamo. Sono presenti costantemente nella sua mente e nel suo cuore, sono suoi incrollabili punti fermi, ma sono lontani nel tempo e nello spazio. La prima di questi personaggi è Concetta, la sua governante di quando, bambino, viveva a Napoli vicino ha un convento di suore, le quali, tra l’altro, bene o male, hanno contribuito in modo sostanziale alla sua formazione. Concetta è un concentrato di saggezza popolare, intelligenza, fantasia e non solo. Raimondo la ricorda sempre con grandissimo rispetto e infinita tenerezza; nei suoi racconti il nostro professore la rivede, anzi, la risente nei suoi motti, modi di dire e proverbi spesso in un napoletano delizioso, che contra puntano tutto il corso della vicenda e danno una mano sostanziale al protagonista della vita tutta e in quel frangente particolare significativo un consiglio di Concetta a Raimondo: “Pensa sempre in maniera originale, diversa da tutti gli altri, fai il contrario di quello che hai fatto fino ad ora, chiediti cosa c’è al di là delle apparenze”: perfetto per uno scienziato, un investigatore, una spia, ma soprattutto per un uomo che voglia essere davvero un uomo. Ma Concetta è importante, anzi, fondamentale nella vicenda perché è un’esperta di tarocchi. I tarocchi sono un argomento che interessa parecchio al nostro autore, tanto è vero che il suo romanzo precedente è “Donne d’arcani minori”, nel quale ci racconta di Corto, lo skipper, impegnato in una fatale mano di carte con o piuttosto contro quattro terribili regine. Qui, in “Morti da salotto,” tanto per sottolineare l’importanza dei tarocchi, parecchi capitoli prendono il titolo da figure delle carte e ad alcune figure delle carte sono assimilati alcuni personaggi.

Tornando a Concetta, intanto lei si definisce “veggente”. È sostenuta da parecchio studio, sa tutto sui tarocchi, napoletani e non solo napoletani, ma, racconta Raimondo con ironia e bonomia insieme, “quando li smazzava per qualcuno non ci azzeccava mai”, appunto perché lei leggeva le carte “con sapienza teorica”. Concetta ha introdotto a questa pratica anche il suo pupillo che conosce benissimo gli arcani, il loro significato e, anche se uomo di scienza, non se ne vergogna e non nasconde di approfittare del loro aiuto in quella indagine tanto spinosa. Ma non solo nei ricordi del protagonista ci sono i tarocchi e sono fondamentali, i tarocchi sono presenti in modo decisivo nella vicenda nella figura di Augustina. Figura completamente diversa da Concetta. Intanto di Concetta non abbiamo il minimo dettaglio fisico, mentre Augustina è connotata con particolari che ce la raffigurano come un’anziana dalle caratteristiche un po’ streghesche. Concetta, l’abbiamo visto, è il simbolo dei tarocchi dell’immaginario colletto divo popolare. Augustina, per parte sua, si presenta subito in modo inequivocabile: “So vedere lontano. Io interpreto la realtà”. A differenza di Concetta, lei sa poco di teoria; lei li usa (Oscar adopera proprio questo verbo) per parlare con le persone, anzi, per far parlare le persone. Quindi lei legge non le carte, ma le persone: sa benissimo che la gente soffre se non può confidarsi e lo fa molto facilmente, molto volentieri davanti ha una disposizione di tarocchi. In questo modo Augustina viene a sapere tanto, per non dire tutto di tutti, così diventa una preziosa informatrice per i potenti; inoltre è capostipite di tanti ciarlatani truffatori, manipolatori che, oggigiorno, approfittano della fragilità del prossimo.


 

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