martedì 29 maggio 2018

Morti da salotto (III)


Macchine di morte
Una recensione al romanzo


Morti da salotto
di Oscar Montani
a cura di Carmen Claps
(III)


Altro personaggio non presente sulla scena, ma presente costantemente nella mente e nel cuore di Raimondo è la sua amante, la marchesa Matilde Pandolfini che il nostro ha il vezzo di chiamare sempre così, con tanto di nome e cognome. Raimondo la descrive come dolce, casta, a metà tra lo stupito, l’orgoglioso, il rammaricato afferma: “in tre anni non l’avevo mai vista completamente nuda”. Il nostro protagonista si rifugia nel ricordo di lei per recuperare un po’ di serenità, per rilassarsi in quei momenti così complicati. Ma non finisce qui: Matilde Pandolfini ricca, nobile, elegante, si rivelerà un prezioso aiuto per l’indagine.

L’ultimo di questa serie, ma poi sarà necessaria una precisazione e una rettifica, è Carlo Alfonso Guadagni il maestro di Raimondo, il suo mentore, colui che lo ha formato come scienziato e soprattutto come uomo, che gli ha insegnato l’amore per la scienza, la passione e il rigore della ricerca con un motto fantastico: “Sapere aude” cioè abbi il coraggio di avere un sapore, di essere una persona non insignificante, in modo che la tua cultura dia un sapore alla tua persona, e questo per te e per gli altri. Ma, come anticipato, c’è da fare una precisazione: il Guadagni, come lo chiama sempre Raimondo compare, molto brevemente proprio nel finale, a chiudere idealmente un cerchio, visto che era comparso nei pensieri di Raimondo proprio in apertura e compare a dissipare qualche dubbio o piuttosto a suscitarne molti altri.
Quanto ai personaggi che partecipano di presenza alla vicenda sono parecchi e questo è tipico del nostro autore che ci regala sempre romanzi che possono essere definiti corali. Al proposito, da segnalare una scena in un teatro – salotto nel quale si tiene una dimostrazione scientifica dei macchinari di Raimondo, teatro nel quale si trovano riuniti tutti, ma proprio tutti, i personaggi, come in una sfilata, in una passerella. L’episodio richiama alla mente alcune splendide situazioni dei lavori di Agatha Christie.
Donne al centro della vicenda e questo non stupisce chi conosce il nostro autore che ci regala sempre ritratti femminili, donne di ogni età, carattere, estrazione sociale, attività, donne vittime e carnefici, più spesso carnefici. Nel romanzo in questione ne ho scelte due.


Intanto Alessandra Cini, la moglie del capitano dei dragoni Lorenzo Mari. I due ospitano nel loro palazzo Raimondo e Licurgo Maria. Alessandra è anche colei che organizza le dimostrazioni scientifiche di Raimondo, che sono poi l’alibi per la sua venuta a Montevarchi. Tanto per mettere subito in chiaro le cose, il protagonista, considerando che Lorenzo ha il grado di capitano, afferma: “avevo capito che oltre a un capitano in casa Mari c’era anche generale”. Già il primo aggettivo a lei dedicato è molto significativo: decisa, che Oscar usa per descrivere la sua voce. Alessandra è figlia di un macellaio e da consorte di un capitano ha conservato tutta la forza, la concretezza, il pragmatismo di famiglia. Donna fiera, dal portamento indomito, piena d’energia scalpitante, sa andare a cavallo, tirare di pistola e di moschetto, ma dimostra anche di aver fatto letture scientifiche approfondite e rivolge al protagonista domande molto appropriate. Comunque nella vicenda tutto ha una motivazione e uno scopo, anche se ben nascosti. Alessandra, personaggio realmente esistito, è descritta sempre attraverso immagini molto significative. Ora è definita una puledra difficile da domare, ora è una amazzone che domina cavallo e cavaliere. Alessandra ha un incontro bollente con Raimondo, naturalmente è lei a prendere l’iniziativa, un incontro che il nostro descrive senza mezzi termini come “una cavalcata non dolce, ma ferina, taurina, animalesca”.


L’altra figura femminile è la badessa Maria Grazia Magiotti, indimenticabile. Questo personaggio è accompagnato fin da subito da una terna di aggettivi inequivocabili che sembrano piuttosto insoliti per una religiosa: bella, giovane, potente. La sua prima apparizione poi è perfetta per mettere subito in chiaro le cose. Raimondo la vede con una pesante croce d’argento al collo, simbolo del suo potere e poi nota che cammina “come se non muovesse passo, quasi avessi ruote al posto dei piedi”. Ogni suo dettaglio fisico è utile per definire la sua personalità ne è riflesso perfetto. Per esempio, c’è un’immagine magnifica che la dipinge, anzi, la scolpisce, visto che è tridimensionale: Maria Grazia, inguainata nella sua tonaca, è descritta come “una colonna di marmo nero di Portovenere”, a indicare la sua fermezza la sua freddezza, il suo distacco. Altro elemento, altro ritornello sono gli occhi, incredibili, occhi incastonati (e il verbo è perfetta per indicare quanto siano preziosi) nel volto bello, occhi di un verde intenso, ma cangiante, visto che alla luce sembrano di giada, ma al buio assumono l’intensità del mirto. Ancora, Maria Grazia non ha il capo rasato come imporrebbe la regola. Infatti a Raimondo capita di vederle un ricciolo ribelle che sguscia fuori dalla cuffia per errore? Per caso? A bella posta? come un serpentello tentatore e velenosissimo. Maria Grazia, badessa di un conservatorio e non di un convento, si permette una certa vita: vince la noia delle lunghe notti con la compagnia di due novizie più o meno acquiescenti, ha la biblioteca fornitissima di libri particolari, fa frequenti viaggi a Firenze con la sua comoda, lussuosa carrozza. Anche lei ha incontro ravvicinato con Raimondo, che Oscar tratta in modo davvero magistrale: è tanto più sensuale perché si ferma ai preliminari, perché è tutto da una promessa. Comunque la nostra badessa si dimostra espertissima nei giochi d’amore e per Raimondo, abituato agli incontri sereni, tranquilli, con la marchesa Matilde Pandolfini, è una sorpresa straordinaria. La badessa, per parte sua, si permette di ironizzare sull’educazione che gli hanno impartito le suore napoletane.
Quindi tante, forse troppe donne intorno a Raimondo che, riflettendoci su, con la solita impagabile ironia, conclude: “Matilde, sedicente libertina, ma casta; Maria Grazia, sedicente reverenda madre, ma libertina, anche se, per ora, solo a parole; Alessandra, che non avevo sedotto, ma che mi aveva domato con una cavalcata notturna”.
Alcune osservazioni sull’aspetto formale. Intanto le descrizioni d’ambiente, esterne ed interne. Sono sempre, inutile dirlo, condotte dal punto di vista del nostro investigatore. Avvincenti i notturni, con le tenebre squarciate dai lampi delle spade, delle lanterne, più o meno legali, da qualche sparo. Oscure presenze ma, visto che nulla è come sembra, non sempre qualcuno che cammina rasente un muro, coperto, anzi, nascosto da un mantello nero, ha intenzioni minacciose. Gli interni, quei palazzi nobiliari, talora un po’ fatiscenti, nei quali si ordiscono trame a non finire.
Per quel che riguarda la scrittura, è studiatissima, perfetta per il contenuto, i personaggi, il periodo. Eccezionale il prologo, che da solo vale il costo del biglietto, come si usa dire a proposito di una partita di calcio quando si assiste a una giocata illuminante. Sempre i prologhi nei lavori di Oscar sono fondamentali perché in pratica servono a inquadrare tutta la vicenda. Qui Raimondo ci spiega in modo ironico, malizioso e chi più ne ha più ne metta, chi sia stato il correttore di bozze del suo lavoro.
Come al solito eccezionali le similitudini inventate da Oscar, per esempio “si aggrappa a quella domanda come un geco su un muro riscaldato dal sole”.
Ancora, gli incisi che cadono sapientemente nel bel mezzo di un periodo a sottolineare, a spiegare concetti.
Infine l’uso del latino, perfetto per il periodo, l’ambiente e l’argomento del romanzo, ma in “Morti da salotto” il latino è qualcosa di più: lasciamo scoprire al lettore come nelle mani di Oscar diventi un ironico, gustoso codice cifrato per trasmettere messaggi segreti.

FINE

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