lunedì 5 agosto 2019

Riflessioni sarzanesi (3)


Requiem in Re minore
di Oscar Montani

Riflessioni critiche di Carmen Claps

Parte seconda
Come tutte le storie raccontate da Oscar Montani, anche questa è un meccanismo impeccabile, infallibile e implacabile, un mosaico composto da tessere che si incastrano alla perfezione. Intanto il perfido gioco degli indizi. Oscar si diverte a buttare lì – no, non è questo il verbo giusto perché non è un qualcosa di sciatto, è un gioco maledettamente accurato, meticoloso e raffinato. Talora sono tracce che paiono affidabili e poi risultano assolutamente false e fuorvianti, talora paiono insignificanti, trascurabili, eppure sono quelle buone. Peccato che il lettore senza una mentalità da detective se ne accorga solo alla parola fine; comunque buon per lui, perché questo è un ottimo motivo per ricominciare la lettura e godersi il tutto a posteriori. Nel romanzo nulla è fuori posto nulla è irreale ingiustificato. Per esempio, si potrebbe obiettare: che senso può avere, che realismo può avere un’indagine condotta da quella che la compagna di Corto, il magistrato Cinzia Salvi, chiama, ufficialmente con riprovazione, in realtà con grande simpatia e anche con una punta di ammirazione “corte dei miracoli”? 


Bene, all’interno di quella accozzaglia di caratteri e professioni ci sono rappresentanti delle forze dell’ordine. C’è Ginko, amico d’infanzia di Corto, sagace poliziotto, agente, poi agente capo, ora, per una strana promozione, ispettore. Ginko è un carattere tormentato, ha un passato torbido alle spalle, con momenti di attrito notevole nei rapporti con il suo grande amico Corto. C’è poi il maresciallo dei carabinieri Miglietta, devotissimo alla divisa, acquisto piuttosto recente del gruppo del nostro protagonista, accettato subito, tanto che si è guadagnato in quattro e quattr’otto un soprannome, del resto inevitabile: Maglietta, a causa del suo abbigliamento inguardabile e improponibile. Molto abile il modo in cui il nostro autore ha gestito il rapporto tra polizia e benemerita.
Visto che siamo scivolati a parlare dei personaggi bisogna dire che, pur essendo quelli di Oscar personaggi seriali, non si perde nulla anche leggendo l’ultima puntata delle loro avventure, perché l’autore ha la capacità di inquadrare un personaggio, di presentare tutta la sua storia in poche parole, in sintesi efficacissime, cosicché non ci troviamo mai di fronte ad un cosiddetto “edificio senza fondamenta”.

Sarebbe interessante, utile ed anche divertente esaminare tutti i personaggi del coro, perché tutti contribuiscono a dipingere il quadro di una varia umanità, ma è chiaramente impossibile. Ci limitiamo ad alcuni cenni. Intanto il Nespola, il più grande rompicoglioni della Versilia, proprio irritante con le sue osservazioni pedanti, ma che, spesso, senza rendersene conto dà dritte utilissime. Poi suor Miranda, missionaria nel Burkina, quindi donna pratica, concreta, che accetta e si diverte anche a dare una mano a Corto. Addirittura la vediamo travestirsi: compare nei panni di una perfetta testimone di Geova in un racconto de “Lo chalet in pineta” e qui nei panni di una riccona. Rodin, geniale soprannome che è sì l’abbreviazione del nome e cognome di chi lo porta, Romano Dinelli, ma si riferisce anche alla sua attività di creatore di maschere per il carnevale, richiamando il grande scultore francese. Dinelli, proprietario di una barbieria, è un personaggio, uno dei tanti, tormentato, dal passato più che equivoco (ricettatore, spacciatore). Ad un certo punto, a seguito di chiarissime minacce di Ginko, ha cercato di ripulirsi. Per questo ha cambiato sede al suo salone di barbiere, spostandosi in una zona più elegante con la speranza di farsi una clientela più chic, ma invano: i suoi clienti, o meglio “non clienti”, l’hanno seguito. È un gruppo pittoresco di pensionati (Oscar ha il pennello infallibile per dipingere gli anziani) che si radunano lì non per farsi fare barba e capelli, ma per passare il tempo, per sfogliare distrattamente i quotidiani, per guardare molto meno distrattamente calendari da camionista. E’ chiaro che un ambiente di questo genere può essere una miniera di informazioni per il nostro investigatore che vi ricorre spesso con ottimi risultati. Personaggio fondamentale in questo romanzo, ma di rilievo in tutta la saga di Corto, Don Sesto che conosce il nostro protagonista fin da bambino. È un marcantonio di 1 m e 90 per 100 chili, con braccia impressionanti che si abbattono come veri e propri magli sui peccatori, sui disobbedienti, sui grulli. Non calza scarpe eleganti né tantomeno pantofole di raso rosso alla Leone XIII, ma terrificanti anfibi con tanto di carro armato per assestare calci o pestoni devastanti. Si è capito: Don Sesto ha un concetto del perdono e della misericordia tutto suo. Viaggia non con il conforto di bibbie messali vari, ma con il “Codice da Vinci”. Appassionato, anzi, fanatico di calcio, sedicente zio di Marcello Lippi, è l’allenatore indiscusso e indiscutibile, dispotico della squadra della parrocchia. La sua ostilità nei confronti di Ginko nasce in gran parte dal fatto che questi, parecchi anni addietro, sbagliò il rigore decisivo nella finale nazionale di un torneo inter parrocchiale. A Baggio in un mondiale un rigore fallito si può perdonare, a Ginko no. Don Sesto diventa in pratica il motore della vicenda: è lui che, due anni dopo i fatti, convince o meglio costringer Corto a indagare sul mistero di quel pianoforte spiaggiato e vedremo perché, è lui che convoca riunioni plenarie o riservatissime per dare ordini e essere informato sugli sviluppi della situazione. La canonica, il salone parrocchiale diventano la centrale operativa. Don Sesto comincia ad essere in effetti esigente, pesante, insopportabile, anche per Corto che pure gli era sempre stato sottomesso e ora arriva a definirlo “tirannico”. Il nostro investigatore decide di sganciarsi, di agire in autonomia ed è molto interessante seguire le fasi di questo ammutinamento. Che poi ci riesca è un altro discorso: la longa manus della Chiesa arriva ovunque. 


Comunque la scena finale vedrà ancora una volta Don Sesto in primo piano, a bordo di una Fiat 500 antidiluviana (immatricolata nel 1962), che a stento lo contiene, dalla quale emerge dal torace in su, novello Rommel a bordo di un Panzer o, meglio ancora Lucifero che si erge dalla palude di ghiaccio del nono cerchio dantesco. Del resto il nostro prete un po’ luciferino lo è. Da lì sorveglierà e sovrintenderà la cattura del colpevole, che sottoporrà ad una prima sommaria punizione con uno splendido: “guarda che sono parecchio contrariato”. Il massimo dell’arrabbiatura.
La scrittura è ancora una volta magistrale, scorrevole rigorosissima. Il nostro autore è assolutamente padrone della lingua. Inutile citare le sue immagini, con accostamenti incredibili di sostantivo aggettivo o sostantivo predicato verbale, che, in teoria, parrebbero assolutamente inconcepibili, addirittura sbagliate, ma nella penna di Oscar sono veri e propri capolavori, poesie. Credo che il nostro autore si diverte a giocare con la nostra splendida lingua e gli esempi in questo romanzo, ma in ogni sua opera, sono tantissimi. Mi piace citare un monologo di Geco nel quale l’ex ladro acrobata, partendo dal pronome “ella”, simbolo della femminilità, fa un esilarante trattato sulle gambe delle donne assimilandole ad animali, oggetti, professioni il cui nome termina per "ella".
Ancora una volta, ma non è una formula precostituita, tanto per dire, buona lettura.
(Carmen Claps)
 

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