LOCALIZAZIONI GIALLE
ovvero: zone gialle letterarie
"La cativa lavandera a' treuva mai la bun'a pera!"
Un'analisi leggera (con critiche bonarie) e scherzosa della provincia in giallo e dei suoi dialetti.
Parte VI
Napoli
A prima liceo durante l'anno scolastico, in preparazione de I Promessi Sposi, lettura prevista in seconda, leggemmo Demetrio Pianelli. Una storia tristissima, un'agonia per il giovane lettore, da consumare nella nebbia milanese...
Mi feci la convinzione che Emilio De Marchi, l'autore, fosse un "lumbard" bastardo! Non era così ma mi ci sono voluti venti anni per ricredermi
Il cappello del prete proto thriller in giallo napoletano l'avevo visto in TV con riprovevole distrazione, poi anni dopo lessi una recensione su una rivista di letteratura e mi decisi a comprare il libro.
Ne sono rimasto fulminato. Incredibile, per me, anche ora che uno che ha scritto il Demetrio possa scrivere il Cappello!
C'è Napoli e c'è il fatalismo partenopeo. Nei bassi e nei vicoli del romanzo c'è l'ironia irriverente e a volte amara di Totò, insomma il dialetto è centrato sulla storia e la storia sul dialetto. Un diletto, per il lettore. Fu allora che, illuminato, maledissi la mia professoressa d'italiano al liceo! Come controprova lo regalai al figlio quindicenne di un amico per il suo compleanno. Lo divorò e mi ringraziò contento!
Più di cento anni dopo anche Maurizio De Giovanni pubblicando Il senso del dolore, prima indagine di ricciardi,mette in campo un barone.
Il barone Luigi Alfredo Ricciardi nasce il 1º giugno 1900 nel Cilento, come figlio unico della famiglia nobiliare dei baroni di Malomonte. Rimasto orfano dei genitori da ragazzo (il padre muore ancora giovane, mentre la madre trascorre molti anni in una casa di cura), si trasferisce con l'anziana tata Rosa (che prima di lui aveva accudito sua madre) a Napoli, dove si laurea con lode in giurisprudenza con una tesi sul diritto penale ed entra nella Squadra mobile della Regia Questura.
Quanto è diverso l'altro barone, quello di De Marchi
"Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura.
A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore".
Torniamo al testo di De Giovanni. C'è un uso sapiente del dialetto, non c'è bisogno dei sottotitoli (come ne L'amica geniale!), i dialoghi si capiscono ma devo dire che sono meno comprensibili i fantasmi. Sì, a parlare napoletano stretto son soprattutto i fantasmi, che, nella sua dannazione, vede il Commissario Ricciardi.
Credo che sia non solo un trucco scenico (vituperato dai puristi del giallo classico- SS Van Dine!), ma anche un'operazione nostalgia per una Napoli che ormai non c'è più. I fantasmi non solo spianano a Ricciardi la via verso la soluzione del mistero, ma ricordano al lettore la Napoli com'era.
In questo ci leggo
onestà intellettuale e perdono a Maurizio De Giovanni queste licenze
giallo-poetiche. Comunque a suo monito: "il gotico è un genere difficile"! Si chieda come mai i suoi fantasmi vengano meglio a fumetti che sulle pagine scritte d'un romanzo!
Non parlerò invece dei suoi romanzi dei Bastardi di Pizzofalcone perché questo clima lo trovo meno genuino e più costruito. Sì, per me è accettabile il melò di Ricciardi, non il cinismo "metropolitano" dell'ispettore Lojacono, che poi non è neppure napoletano!
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