Speciale: George Smiley
al cinema e in TV
Un uomo nell’ombra
I
John le Carré non amava (Ebbe a confessarlo: li detestava!) i romanzi di Ian Fleming. Forse invidiava un po’ Fleming che nel 1943 aveva fatto davvero la spia prestando servizio nel gruppo della famosa operazione segreta Mincemeat (depistaggio dei tedeschi per preparare lo sbarco in Sicilia).
Fleming da parte sua non doveva amare quel suo ruolo da oscuro spione, chiuso in uno scantinato, alle prese con telescriventi, dispacci e scartoffie (perquanto importanti!), tant’è che a partire dal 1953 propose, come sua catarsi, James Bond, agente segreto dandy, affascinante ed elegante sciupafemmine costantemente sopra le righe, destinato al successo in libreria, ma a grandissimo successo sul grande schermo (Anche, ahimè; duraturo: "arridatece Connery!"). James Bond è un'iperbole, un'utopia spionistica. Un modo di fare la spia che non è mai esistito e mai esisterà, del resto non è mai esistita neppure la Spectre!
Per questa sua avversione al lusso e alla brillantezza di Bond, già dal 1961, con il suo primo romanzo Chiamata per il morto, Le Carrè punta su George Smiley, una spia agli antipodi del mitico 007. Smiley appare come un protagonista più realistico e molto più vicino alla realpolitik della Guerra Fredda. Mentre James Bond si comporta da atletico, eclettico ed eroico ammazzasette (007!), George Smiley è al contrario un sedentario, che lavora prevalentemente in ufficio, ha una vita piuttosto squallida, grigia, senza momenti di entusiasmo, ma mai è pavido. Poverino: come ulteriore problema è sposato a una donna ninfomane che lo tradisce (e lo ferisce) più profondamente di qualsiasi spia della Spectre e che poi, addirittura lo scarica.
Sarà perché lui è un ometto di mezza età (prossimo alla pensione), tarchiato e bassotto, un po’ calvo, senza
alcun fascino apparente, solo dotato di grande acume, qualità che lo aiuta non
poco per architettare e risolvere gli intrighi più complicati. Sia Bond che Smiley
arrivano al grande successo a meno di un anno di distanza. Si formano, tra gli spettatori (non tra i lettori: da un punto di vista letterario Le Carré è più di una spanna sopra a Fleming) due correnti di pensiero: i fan di Bond e i realisti che si identificano in Smiley.
Seppure in ambiti diversi, James furoreggia al cinema con Agente 007 Licenza di uccidere, poi seguito da Dalla Russia con amore. George è il protagonista (anche se un po’ dietro le quinte) di un romanzo epocale e del successivo film di grande successo: La spia che venne dal freddo.
Sì anche Smiley approda rapidamente al grande schermo. Nel 1964, infatti, Martin Ritt dirige magistralmente La spia che venne dal freddo, con Richard Burton protagonista, candidato all’Oscar come miglior attore, seppure non nei panni dello stesso Smiley, il cui ruolo secondario nel film è interpretato da Rupert Davies. Burton è un agente segreto britannico, un po’ allo sbando, chiamato al doppio gioco nei confronti degli agenti del blocco sovietico. Gioco che conduce al meglio.
Durante la produzione Le
Carré venne chiamato per riscrivere qualche dialogo, lo fa (è ben pagato), ma non è contento di
quell’esperienza; alla fine (pecunia non olet!) apprezza pubblicamente il risultato.
E
allora ecco quasi subito dopo, 1966, Chiamata per il morto diretto da Sidney
Lumet, questa volta il protagonista è James Mason che dovrebbe interpretare
Smiley, ma la Paramount (produttrice del film con Burton) detiene i diritti del personaggio (nome compreso!) per evitare grane legali e ritardi alla produzione (ancor più deleteri!),
il personaggio viene, ahimé, rinominato Charles Dobbs. Per il resto, la trama segue abbastanza
fedelmente quella del romanzo da cui è tratto.
A seguire il meno riuscito Lo specchio delle spie con regia di Frank Pierson e Smiley sembra allontanarsi dagli schermi: Hopkins crede poco alle spie! Una delusione per Le Carré. Per un decennio il rapporto dell’autore con il cinema sembra molto raffreddato…
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