Dall'A alla Z
miscellanea estemporanea e semiseria sul genere giallo/noir
ovvero il mio Dizionoirio
Parte VI
Bambola
La bambola cieca primo romanzo giallo di Giorgio Scerbanenco uscì nel 1941 ne I LIBRI GIALLI Mondadori, oggi è ripubblicato dalla Sellerio.
Un classico? No, una pietra miliare, ma ormai vintage: sente gli acciacchi degli anni… fa però parte della storia del giallo italiano e segna l’inizio della carriera di Re Giorgio.
L’ho riletto dopo tanto tempo per poter rispondere alle domande di lettori modaioli. Scerbanenco, infatti, a partire dai romanzi “americani”, lo stanno riproponendo con intenti di rilancio. Un errore di sessantenni faciloni. Per rovistare nella memoria delle letture adolescenziali bisognerebbe usare solo i classici: nella fattispecie quelli dove indaga "il" Duca Lamberti. Questo romanzo è lontano dalle opere più mature di Scerbanenco (le milanesi appunto) e soprattutto genuinamente italiane. Le contraddizioni del Regime (siamo nel 1941) imponevano nei Libri Gialli Mondadori almeno il 25% di autori italiani (quota italica), ma “rigorosamente” (come una famosa pasta di oggi) ambientati all'estero (“Sappiate che da noi c’è ordine: queste cose non accadono!”): solo in Usa o nella perfida Albione si consumavano turpi delitti!
La narrazione in “seconda persona” è mutuata da Sherlock Holmes, ma è meno partecipata (Watson ci mette sempre del suo!). Tommaso Berra, il narratore, è amico di Arthur Jelling, il grigio, schivo, impacciato ma geniale detective. Sì, Berra è una specie di Dr. Watson, meno sottomesso e più critico. Jelling, un oscuro archivista, non è sciolto (né tantomeno presuntuoso) come Holmes e le sue abduzione sono un po’ più fallaci: è solo testardo allo stesso modo. Lo aiuta devoto il sergente Machty: anche il rozzo poliziotto contribuisce alla fallacia, anche se a volte rimedia coi muscoli.
Non è questo il problema maggiore: sa di stantio. Avrebbe bisogno di un editing moderno per togliere delle forme anni trenta che rendono impacciata o "tarlata" la prosa, ma come si fa? Scriveva veloce e scriveva già dappertutto, anche nei "foto" romanzi (anche se foto non erano, ma pregiate tavole di W. Molino). C'è un ultimo sospetto: residui di ucraino, o peggio di russo? Sarebbe, ormai, come voler riscrivere E.A. Poe. Meglio, forse, qualche nota (colta per dargli uno spessore, che non ha!) in calce che lo faccia apparire quello che è: un vecchio testo del secolo scorso. Insomma come si fa con la Divina Commedia in edizione per le scuole…
Black
Black Dahlia (Black Dahlia) è un fil di Brian De Plama con Josh Hartnett, Scarlet Johansonn, Aaron Eckhart, Hilary Swank.
Il film è tratto dal romanzo omonimo di James Ellroy (allora sulla cresta dell'onda), romanzo un po’ sopravvalutato. La pellicola è da pallino bianco (priva di senso secondo il preclaro Merenghetti): non ci ha capito niente il regista. Forse anche lui ha sopravvalutato Ellroy?
C’era sotto un incubo da rimuovere (di James o di Briam?), ma mi sembra che non sia stato rimosso.
Piccola trama. Nel gennaio del 1947 due poliziotti di Los Angeles, entrambi ex pugili, Lee Blanchard e Bucky Bleichert si trovano ad indagare sul misterioso e crudele omicidio della giovane Elizabeth Short. La ragazza, aspirante attrice originaria di Boston, soprannominata Dalia nera per la sua abitudine di vestirsi con tale colore, viene trovata uccisa con il corpo brutalmente sezionato. … Mi fermo qui perché la trama diventa subito molto (troppo!) complessa: non raccontabile.
Si tenga presente che è una storia vera. Il cadavere della Short fu rinvenuto tagliato in due, l’immagine qui non la riporto per rispetto a voi e al cadavere! Ma potete facilemte trovarla in rete. Torniamo al film.
De Palma si esprime con la sua solita eleganza geometrica, regalando alla sua storia un altro superlativo scavalcamento, con macchina Dolly, a scoprire con progressiva zoomata (ripreso da Sergio leone, finale di C'era una volta il West, direi), dietro le palazzine di Los Angeles, il corpo straziato della sua Dalia. La Dalia di cui si dice fosse ossessionato Ellroy.
C'è da capirlo. L' evento segnò la sua vita, fu un caso di omicidio rimasto irrisolto, ed avvenne a poca distanza da dove il giovane Ellroy abitava. Guardate le foto della vittima e capirete perché: non sono immagini per bambini sensibili!
Purtroppo, nel film, la narrazione
s’inceppa quasi subito e il regista mostra d’aver smarrito la sua straordinaria
capacità narrativa. Raffinato esteta della messa in scena, De Palma tradisce
un'imbarazzante, perché inspiegabile, mancanza d'intenti. In altre parole è
orfano del suo mito: Alfred Hitchcock!Zio Alfred usama trame lineari, creando suspense, com oggetti o luoghi comuni: una finestra su un cortile, o un campo di mais in una pianura agricola.
Il complicatissimo, intricato e lungo, romanzo di Ellroy, doveva essere necessariamente compresso in centoventi minuti e liberamente aggiornato nel suo epilogo. Indaga, romanzando, su un crimine restituendo l'affresco di un'epoca, quella del dopoguerra, e i ritratti degli uomini e delle donne che lo avevano subito o agito. Il film è incapace di prendere una direzione esplicita e finisce per scontentare sia i lettori del romanzo, questa è spesso la ricorrente consegueanza degli adattamenti di romanzi; sia coloro che ignorano le pagine di Ellroy, questo è invece spiacevole. Il racconto è lacunoso: troppe omissioni o troppe informazioni, troppe piste intraprese e poi smarrite, sprecate in un finale spiegato in due battute.
I punti di forza, come quelli lirici, ci sono e non mancano di incantare: la Los Angeles fine anni Quaranta ricostruita in Bulgaria da Dante Ferretti; la straordinaria Dalia di Mia Kirshner, fragile e vulnerabile, seducente e civettuola. Su tutti l'interpretazione di Aaron Eckhart, cinico farabutto ma gentiluomo, che toglie ogni speranza al più giovane (vedi foto sopra) e immaturo Josh Hartnett.
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