martedì 8 giugno 2021

Il noir nel western (II)


Il western in noir

verso ovest, verso il noir

Parte II

Alba fatale

 

The Ox-Bow Incident (1943)

All'inizio i produttori degli studi della 20th Century Fox erano molto titubanti: non sembravano credere nelle possibilità di successo di una pellicola così "noir" e crepuscolare, priva di eroismo e dai toni pessimistici e cupi. Tuttavia, con mentalità imprenditoriale e attenendosi a una prassi tipica dello studio-system dell’epoca, accettano di produrre la storia, a patto che, il regista, Wellman si impegni a dirigere altri due film, di carattere più commerciale.

 

Il budget piuttosto basso costringe  attori e regista a lavorare negli spazi chiusi degli studios, con pochissime riprese in esterni: particolare che, seppur imposto dall’alto, contribuirà a rendere ancora più claustrofobica l’atmosfera generale del film, che, appena in proiezione, fu subito definita "noir"!

E' forse anche il primo western realistico. L’esperienza della guerra in atto funge da acceleratore per la via hollywoodiana al realismo. Molti film dell’immediato dopo-guerra  affrontano con schiettezza, oltre che con una carica innovativa sul piano stilistico, grandi questioni sociali.

Tale fenomeno,  avrà una notevole influenza anche sulle logiche dei generi hollywoodiani, dal noir al western qui ben mixati.

Alba Fatale  è il capostipite di quello che la critica francese (già responsabile del termine "noir") definì sur-western: “Western che  cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico…, insomma, un qualche valore estrinseco al genere e che si suppone lo arricchisca, come ogni noir che si rispetti”. In questo caso, con una profonda riflessione sulla giustizia.

Mi dispiace contraddrli ma "tutti i western dopo Ombre Rosse  sono così"! Ad esempio in Sentieri selvaggi c'è l'odio razziale, in Mezzogiorno di fuoco c'è la complessità dei sentimenti verso il prossimo, in L'uomo di Laramie c'è la vendetta, ma c'è anche Shakespeare!

La  mitologia del West viene, in questo film, guardata con occhio esterno e sottoposta al tribunale del dubbio, spogliata dalla veste idealista e restituita a un tragico realismo.

La costruzione drammatica di Alba Fatale rimane aggrappata a diversi cliché del genere: un cowboy giovane e bello arriva assieme al suo pard in una piccola cittadina sperduta la cui vita è concentrata nel saloon e dove non rimane che “giocare, bere, dormire, mangiare e litigare”. In questo piccolo universo abitato da tipi umani ben riconoscibili (l’uomo di legge, il giudice, l’ex militare, l’alcolizzato, etc.), arriva la notizia che due ladri di bestiame hanno assassinato un allevatore della zona. L’assenza dello sceriffo permette alla folla, capeggiata da un ex generale sudista, di farsi giustizia da sé e di linciare i presunti criminali.

Pure la scelta di ambientare nella natura selvaggia la scena della cattura e della conseguente impiccagione rimanda a un topos che risale agli albori del genere: ambienti che rispecchiano  la mancanza di legge e la civiltà che cerca di avanzare.

Il plot-twist finale però, in cui si scopre che l’allevatore è ancora vivo e che i tre uomini appena giustiziati sono del tutto innocenti, capovolge questi valori, mostrando come sotto quella violenza e quelle morti non si nasconda altro che la rabbia repressa della popolazione, prontamente direzionata verso il primo capro espiatorio da capi militari autoritari e affamati di potere.


Ciò che però più cambia, nel film di Wellman, rispetto alla classicità del genere, è lo stile con cui questa storia è raccontata: uno stile che all’eroismo e alla speranza nel domani sostituisce un generale sentimento di impotenza e un pessimismo verso un Nuovo Mondo già troppo corrotto.

Con un'estetica sobria ed essenziale, ed a colpi di chiaro scuri, Wellman demolisce la drammatizzazione e l’archetipo dell’eroe romantico; la scura freddezza delle inquadrature rinuncia alle grandi sequenze fordiane, alle cavalcate e agli scontri coi nativi, ai grandi spazi, ai canyons e alle praterie, per concentrarsi invece, con primi piani ravvicinati, sui volti spenti e tristi dei personaggi, per evidenziare i rapporti di forza o di debolezza.

È soprattutto la figura dell’eroe, come abbiamo accennato, a sgretolarsi sotto i colpi del western wellmaniano:   il personaggio principale (Fonda), introverso e pensieroso, rimane qui in una posizione di passività, dalla quale sfugge a ogni possibile controllo degli avvenimenti. È un osservatore basito, schiacciato dagli eventi.   Non spicca sugli altri per coraggio o determinazione e che anzi spesso rimane in secondo piano rispetto ad altri personaggi, ben più incisivi. Egli poco può fare per impedire l’esecuzione sommaria: invoca un giusto processo, ma non compie gesti avventati per ristabilire un equilibrio e finisce infine per riconoscere la propria impotenza di fronte alla massa, in pratica subisce.  

Il risentimento di Wellman nei confronti della massificazione della società è evidente.  In questo il regista statunitense non fu un caso isolato:   “Quando una massa ignorante smette di ragionare, è facile che veda lucciole per lanterne”, fu scritto.

Non solo la massa rende impossibile all’uomo l'esercizio della propria moralità, non solo rende sfumati i contorni di opinione e verità, ma rende altresì vana qualsiasi azione eroica, perché la forza del singolo si muta in frustrazione e impotenza.


È indubbio che il succo della pellicola stia in una grande riflessione sulla giustizia, l’opera si pone però in netta contrapposizione sia rispetto a un umanesimo che vuole il trionfo della ragione umana sulle forze oscure della natura, sia rispetto a quella corrente trascendentalista - tipicamente americana - che rappresentava l’uomo in una sorta di comunione mistica con essa. La natura non è qui la dimora accogliente dell’uomo, né un’idealizzazione romantica, né tantomeno l’ancella della ragione. Essa è, piuttosto, lo scenario psicanalitico dove le ombre prendono corpo e in cui le pulsioni inconsce e gli istinti si manifestano e trovano il loro libero sfogo, in cui la sete di violenza dell’uomo si fa strada.

Il bosco in cui vengono catturati i presunti ladri di bestiame è il luogo in cui si capovolgono i valori illuministici e dove la civiltà e l’eroismo mostrano la loro seconda faccia; lo spazio in cui la giustizia mostra il suo lato oscuro e dove la legge morale non ha più alcuna autorità sui personaggi; la dimensione dove la prospettiva oggettiva si trasforma in soggettiva, dove l’uomo non è più in grado di affermare la realtà, ma solo di fornirne una propria (parziale) interpretazione.

È la coscienza morale, il sentimento che richiama l’uomo alla giustizia, quella che Wellman vuole risvegliare e quella che la massa tende a obnubilare, conducendo gli uomini verso la banalità di un male perpetrato quasi per sbaglio, per una sciocca incomprensione, per una notizia falsa gridata ai quattro venti: “Non può esserci di quella che chiamiamo civiltà se gli uomini non hanno coscienza”.

 


Sul finale Wellman lascia una speranza, lancia un appello alla coscienza che sola può aprire le porte di una fraternità universale, rendere gli uomini consapevoli di loro stessi e delle loro azioni e riportare l’armonia e l’equilibrio. Ma la voce che risuona tra gli ambienti del piccolo saloon cittadino è quella di un morto, perché la storia ha già fatto il suo corso e ormai non rimane che raccontarla.

 

(Parte II - segue)

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